Il nostro fisco, si sa, ormai parla sempre più spesso in inglese.
Specie quando deve introdurre innovazioni e dare, in questo modo, l'idea che queste siano mutuate da contesti internazionali dove si applicano da tempo e con successo. Anche quando questo, in realtà, non è per niente vero.
È il caso del cosiddetto "split payment", letteralmente "scissione del pagamento", comparso tra le novità della legge di stabilità 2015, senza nemmeno attendere il previsto via libera definitivo da parte della Commissione europea.
In pratica il nuovo meccanismo prevede l'obbligo, dal 1 gennaio di quest'anno, per tutte le Pubbliche Amministrazioni di non pagare più l'IVA ai propri fornitori ma di pagarla direttamente allo Stato.
In questo modo, come evidenziano gli stessi testi ministeriali, l'imposta viene trasferita ..."in mani più sicure" (testuale) e così si può più efficacemente contrastare quella che viene definita "una diffusa tendenza da parte dei fornitori a non dichiarare e/o versare l'IVA fatturata ai clienti".
In conseguenza di ciò tutte le imprese che lavorano per la Pubblica Amministrazione non potranno più compensare oggi, così come facevano prima, l'IVA incassata sulle fatture di vendita con quella pagata sulle fatture di acquisto e pertanto dovranno chiederne il rimborso all'Erario, scontando così i tempi e gli adempimenti che questa pratica tradizionalmente comporta.
In questo modo lo Stato risolve "d'emblée" i suoi problemi di mancato gettito e, per colpa di una minoranza di evasori che si rinuncia a scovare, tutte le aziende (quindi anche, e soprattutto, quelle corrette) vengono gravate di significativi costi strutturali aggiuntivi oltre ad incorrere in problemi finanziari, potenzialmente anche gravi.
Infatti le modifiche introdotte comportano adeguamenti rilevanti ed immediati di tutte le procedure informatiche, imponendo una nuova modalità di emissione e di contabilizzazione delle fatture. In pratica, andranno creati due sistemi di gestione della contabilità differenziati. Quindi nuovi costi per l'aggiornamento del software e tempi aggiuntivi per la formazione degli operatori.
Ma i maggiori problemi insorgeranno per le aziende soprattutto dal punto di vista finanziario.
Non incassando più l'IVA dal cliente, le imprese che lavorano in via prevalente con la Pubblica Amministrazione perderanno quella leva finanziaria particolarmente utile in tempi di crisi.
È ben vero che in questi casi viene prevista una via prioritaria di rimborso ma una cosa è avere i soldi in tasca, altra cosa è doverli comunque richiedere indietro allo Stato. Ci vorrà sempre, infatti, un'adeguata documentazione (che va quindi predisposta) e la pratica richiederà in ogni caso i suoi tempi tecnici. E se l'importo richiesto supera i 15 mila euro ci vorrà anche una un visto di conformità. Quindi, altri costi. C'è poi da considerare il limite annuale di 700 mila euro dei crediti fiscali e contributivi che possono essere utilizzati in compensazione. Un limite che, a ben vedere, in caso di IVA, corrisponde a un imponibile di operazioni passive di poco superiore ai 3 milioni. Tutt'altro che impossibile da raggiungere se le operazioni attive sono tutte nei confronti della Pubblica Amministrazione.
Non è difficile quindi prevedere per le nostre aziende che lavorano col settore pubblico una necessità di maggiore ricorso al credito. Sperando che, di questi tempi, le banche siano ancora disposte a concederlo. E quindi nuovi interessi passivi o maggiori difficoltà nel pagare i propri fornitori.
Visto che, come dicono le stesse fonti ministeriali, la nuova procedura rappresenta "una novità assoluta in ambito IVA, in quanto non risulta che altri Paesi l'abbiano prevista" non pare fuori luogo chiedersi se fosse davvero opportuno introdurla. A maggior ragione adesso, in un momento in cui qualche timido segnale di ripresa comincia a intravedersi. E poi perché sempre i privati, in questo caso le imprese, chiamati a dover pagare per le inefficienze dello Stato?
Claudio Siciliotti
13/02/2015