La nuova campagna pubblicitaria dei commercialisti italiani continua a far discutere. E del resto leggere a piena pagina che una professione o una categoria sostiene che «è tempo di pensare meno ai nostri diritti e più ai nostri doveri» non capita ceno di sovente. In passato altri Ordini erano ricorsi all’advertising ma quasi sempre di rimando o in mera chiave rivendicativa. Per difendersi dalle critiche, per litigare con la politica o al massimo per illustrare le proprie competenze. I commercialisti, invece, hanno deciso di parlare un’altra lingua e si sono innanzitutto auto-definiti come «utili al Paese». L’operazione è dunque ambiziosa e tenta di ridisegnare la figura di una professione largamente diffusa e diventata un punto di incrocio tra singoli cittadini, imprese e pubblica amministrazione. Il commercialista conosce forse meglio di molti altri l’andamento dell’economia reale, possiede informazioni sui patrimoni personali dei clienti e ovviamente sa quali sono le esigenze improrogabili delle controparti pubbliche.
La campagna pubblicitaria si è snodata lungo due tappe e con dieci diversi messaggi, tutti tesi a sottolineare un processo di assunzione di responsabilità. I commercialisti come riserva di classe dirigente, «possiamo cambiare le cose perché siamo professionisti; vogliamo cambiarle perché siamo cittadini». E’ evidente che la ricaduta di questo nuovo posizionamento interessa in primo luogo la delicata materia tributaria. Il presidente Claudio Siciliotti sostiene una tesi scomoda: occorre rompere il patto perverso che ha visto lo Stato chiudere un occhio nei confronti della infedeltà fiscale dei lavoratori autonomi e chiuderne due nei confronti dei dipendenti della pubblica amministrazione (ai quali non si richiedevano standard di produttività e raggiungimento di obiettivi). Per cambiar passo e costruire un patto sociale degno di uno Stato moderno ed efficiente, Siciliotti non si limita ad auspicare riforme più o meno praticabili («dire che oggi in Italia molte cose andrebbero cambiate è un’affermazione talmente ovvia da risultare superflua»), ma «offre» la collaborazione dei commercialisti che si vanno così a collocare in una posizione terza tra fisco e contribuenti.
La novità è più che considerevole (forse addirittura traumatica) e si corre, infarti, il rischio che non sia accettata dai clienti, abituati da sempre a considerare il proprio commercialista come un complice più che un consulente. E’ come se il medico della mutua si rifiutasse di prescrivere gratuitamente le medicine, hanno obiettato alcuni contribuenti commentando la campagna pubblicitaria sui blog specializzati.
E’ evidente che siamo solo alle prime battute di un confronto inaspettato e i commercialisti sembrano avere tutte le intenzioni di non mollare. Chiedono di diventare certificatori della veridicità delle dichiarazioni dei redditi e promettono di non farsi condizionare dalla paura di perdere il cliente. Tanto di cappello.
Dario Di Vico
(Style Magazine, il mensile del Corriere della Sera, 08/2010)