Secondo un noto adagio, la matematica non è un'opinione. Se questo è vero, proviamo allora ad applicare questo principio di elementare buonsenso ai conti dello Stato, così come emergono dalla nota di aggiornamento del DEF recentemente approvata dal Consiglio dei Ministri.
Dopo un 2012 chiusosi con 753 miliardi di entrate e 801 di uscite (deficit 48 miliardi), le previsioni aggiornate sul 2013 evidenziano 759 miliardi di entrate e 808 di uscite (deficit 49 miliardi).
Le previsioni di uscite riferite ai quattro anni a venire segnano una continua progressione in aumento (2014: 812; 2015: 828; 2016: 840; 2017: 854). Conseguentemente, le entrate non possono che tenerne il passo (2014: 775; 2015: 798; 2016: 819; 2017: 842). Il deficit si riduce ma l'agognato pareggio resta pur sempre un miraggio (2014: -37; 2015: -30; 2016: -21; 2017: -12). Il debito aumenta, sia pure con una lieve flessione ipotizzata nell'ultimo anno (2013: 2.069; 2014: 2.129; 2015: 2.149; 2016: 2.149; 2017: 2.137). Il PIL, il cui livello previsto 2013 (1.557) è peraltro praticamente uguale a quello di sei anni fa (2007: 1.554), è ipotizzato in crescita con aspettative, in questo senso, sicuramente ragguardevoli (2014: 1.603; 2015: 1.661; 2016: 1.718; 2017: 1.780).
Questi dunque i numeri forniti dal MEF e fatti propri dal Consiglio dei Ministri.
Ovviamente si tratta di previsioni e quindi, come tali, soggette a rettifica come in questi ultimi anni si è sempre puntualmente verificato, con scostamenti anche assai significativi. Tuttavia questi, con le conoscenze attuali, sono i dati e solo su questi possono farsi oggi le opportune considerazioni.
Saranno semplicistiche, si dirà che vanno considerati anche altri aspetti, però mi sembra che non possano non trarsi alcune inequivoche conclusioni.
La prima è che, all'orizzonte, non c'è alcuna riduzione della spesa (altro che spending review...), come pure non si vede alcuna significativa riduzione del debito (altro che dismissioni...). La seconda è che, aumentando le previsioni di entrata, non si capisce come si potrà mai attuare quel "taglio delle tasse" che nessun politico, ormai da anni, smette di prometterci. Forse la pressione fiscale è invece destinata addirittura ad aumentare (questo direbbero i numeri...), ma probabilmente è meglio non farlo sapere e lasciare ad altri la patata bollente. La terza, la più amara, è la constatazione dell'inerzia con cui si continua ad andare avanti. Questi numeri ci certificano infatti, meglio di qualsiasi parola, che all'orizzonte non c'è nessuno scatto, nessuna inversione di tendenza, nessuna misura realmente shock dagli effetti significativi. Nessun "Piano Marshall", nessuna grande riforma strutturale in grado di modificare radicalmente lo scenario cui sembriamo essere tristemente condannati.
Ma di questo oggi non si discute. Si discute invece di altro. I guai giudiziari dell'ex premier (si dimetteranno o meno ministri e parlamentari del suo partito?), le regole per la scelta del leader dell'altro partito (si modificherà o no il suo statuto?), quale altra tassa si potrà rinviare per poi poter dire che entrambi i contendenti hanno visto soddisfatte le loro pur inconciliabili ragioni?
Certamente la situazione è complessa, i vincoli europei sono oggigiorno sempre più significativi, l'impegno personale del premier Letta non può essere messo in discussione. Ma la grande politica è altro. È ad esempio il New Deal di Franklin Delano Roosevelt che risollevò gli Stati Uniti d'America dopo la disastrosa crisi del 1929. Serve allora un grande "Progetto Paese" che ci indichi l'Italia che vorremmo che fosse. Una visione del futuro in grado di riaccendere in noi un'energia radicale e innovatrice che ci faccia credere che il cambiamento non è un salto nel buio ma è migliore della conservazione degli effimeri e parziali privilegi che ci garantisce oggi il presente. Una visione che ci induca tutti a guardare oltre la situazione contingente, per costruire il Paese nel quale vorremmo che i nostri figli possano vivere.
Credo viceversa che il male più grande che affligge questo nostro Paese sia invece il "presentismo". Il ridurre tutto al presente, l'incapacità di spostare la propria percezione nel futuro. Tutto finisce per interessare solo in quanto presente. Di quello che sarà non ci si pone il problema e anche quello che è stato viene ricordato in modo semplificato, secondo le proprie convenienze del momento. Ma una comunità non si definisce in base a quello che ciascuno di noi è stato fino a ieri. La nostra identità è la risposta che, assieme, avremo saputo dare per il domani.
01/10/2013 Messaggero Veneto