La notizia era nell'aria, ora l'ISTAT ce ne da la conferma. L'Italia è ufficialmente in deflazione.
L'indice dei prezzi al consumo, confrontando agosto 2014 con agosto 2013, segna infatti un arretramento dello 0,1%. La deflazione, come è noto, è l'esatto contrario dell'inflazione. Quest'ultima, con cui per tanti anni abbiamo avuto assai più dimestichezza, equivale ad un aumento generalizzato dei prezzi. La deflazione indica invece la situazione esattamente opposta: prezzi in discesa. Non accadeva nel nostro Paese dal lontano 1959. Ma quella volta, è quasi superfluo ricordarlo, la situazione era ben diversa. Si era alla vigilia del boom economico e il nostro Pil cresceva di sette punti percentuali all'anno. Al ritmo delle migliori tigri asiatiche. Non come accade invece oggi che c'è sempre uno zero davanti, a ridurre quei punti interi in ben più miseri e risicati decimali.
Apparentemente una notizia del genere sembra essere di per sé positiva. Se i prezzi scendono allora vuol dire che, con la medesima quantità di denaro, si potranno acquistare più cose di quante se ne potessero comprare prima. Non è dunque fuori luogo nutrire l'aspettativa che, a parità di costo, nel carrello della spesa ci possa entrare qualcosina in più rispetto a prima. Ma le buone notizie si fermano qui.
Perché i prezzi, al giorno d'oggi, non scendono per motivi virtuosi. Per effetto, ad esempio, di una maggiore apertura alla concorrenza ovvero del progresso tecnologico. Scendono semplicemente perché domina l'incertezza e manca il lavoro, per cui cala la domanda e si riduce la propensione al consumo. In questa situazione, prezzi in discesa vuol dire soprattutto minori possibilità di generare profitti. E ciò significa necessariamente minori investimenti, minori salari, minori possibilità di occupazione e maggiori rischi di fallimenti e di licenziamenti. Tutto ciò in un'economia che, peraltro, a differenza di cinquant'anni fa, segna pesantemente il passo ed è di fatto in recessione. La deflazione, inoltre, fa lievitare di fatto il valore del denaro per cui diventa anche più difficile, per chiunque, poter restituire un prestito o rimborsare un finanziamento.
Aggiungasi che un tale meccanismo non si corregge affatto da solo. Al contrario, si autoalimenta. Subentra infatti l'aspettativa che, se i prezzi sono in calo, tanto vale rimandare un acquisto a quando questo, in seguito, sarà reso più conveniente dal semplice trascorrere del tempo. L'economia in tal modo si ferma e diventa sempre più difficile attivare una qualsiasi politica di stimolo efficace per la ripresa.
Le conseguenze non sono diverse anche per i nostri conti pubblici.
I rapporti deficit/Pil e debito/Pil hanno tutti un denominatore espresso a valori nominali. Detto in altri termini, entrambi beneficiano dell'inflazione. Se pure questa (oltre alla crescita) si ferma, diventa ancora più difficile conseguire gli obiettivi posti dall'Europa. Inoltre, se il valore di ogni unità di moneta aumenta, così come ciascun cittadino fatica di più a rimborsare un mutuo, altrettanto accade per le nostre possibilità di ridurre l'esorbitante debito pubblico.
Oltre a riforme radicali serve allora anche una politica monetaria nuova. Non c'è altra strada. Perché quella sinora praticata non ha sortito i risultati sperati. Bene ha fatto allora la BCE ad avviare quelle misure monetarie che Mario Draghi ha definito più volte come "non convenzionali", a sostegno della ripresa e delle aspettative di inflazione a medio e lungo termine. Il tasso di rifinanziamento è passato così dallo 0,15% ad una misura ormai prossima allo zero (0,05%). Un nuovo minimo storico. In pochi se l'aspettavano. È stata inasprita pure la tassa sui depositi (dallo 0,1% allo 0,2%) che, da giugno scorso, pagano quelle banche che decidono di parcheggiare la propria liquidità presso la BCE piuttosto che impiegarla. Nella stessa direzione va intesa anche la scelta di acquistare quei titoli derivati (ABS, asset backet securities) che poggiano il loro valore sui prestiti effettuati dalle banche alle imprese.
Il messaggio della BCE alle banche è quindi chiaro: finanzia l'economia reale perché il denaro ti costa meno, perché ti tasso ancora di più (anziché remunerarti) se depositi presso di me e perché sono pure disposto a ricomprarti, in taluni casi, quei prestiti che avrai fatto a famiglie e imprese, rendendoli così sostanzialmente privi di rischio. Il segnale quindi c'è e la reazione delle borse europee non si è fatta davvero attendere.
Ciò non di meno tutto questo non basterà, da solo, ad invertire il ciclo e ad avviare la ripresa. Anche su questo Draghi è stato chiaro.
Nessuna politica monetaria può infatti sostituire le necessarie riforme strutturali. E queste sono compito e responsabilità dei governi nazionali.
Ma va anche detto che una maggiore flessibilità in cambio di riforme (vere) è un patto che ci può stare. Nell'interesse di tutti. Sarebbe infatti paradossale che, nel caso in cui questa strada fosse in Italia finalmente e concretamente imboccata, questa risultasse strozzata da regole che, dimenticando la gravità della situazione attuale, finiscano per impedire la tanto attesa attuazione di un percorso realmente riformatore. E solo per un malinteso senso del rigore. A quel punto drammaticamente fine a sé stesso.
11/09/2014 Messaggero Veneto