In qualsiasi attività lavorativa il soggetto cui è affidata la più alta responsabilità ricambia la fiducia che gli viene accordata tracciando un piano strategico degli obiettivi che, per il futuro, si impegnerà a realizzare. Fonda quegli obiettivi su previsioni che ritiene attendibili. Gli obiettivi possono essere certamente sfidanti, risultare anche giustamente ambiziosi ma devono comunque poggiarsi sempre su previsioni che non siano delle chimere irrealizzabili. Altrimenti si gioca la cosa più importante che ci sia per chi ricopre un incarico di alta responsabilità: la credibilità. Se poi quegli obiettivi (e le previsioni su cui si basano) dovessero risultare sistematicamente disattesi, senza che alcuna credibile giustificazione venga fornita al riguardo, si può star certi che quella fiducia non verrebbe più rinnovata. Col risultato di perdere quell'incarico di prestigio in precedenza attribuito. In questo caso, persino la reputazione ne risulterebbe pesantemente incisa. Business is business, dicono del resto gli anglosassoni. Queste sono le regole del gioco. Si scambia la fiducia del mandato con la responsabilità del risultato. Vien meno il risultato, vien meno fatalmente anche la fiducia.
Vale sostanzialmente la stessa cosa per qualsiasi altro campo della vita sociale. Eccetto che per la politica. Perlomeno nel nostro Paese.
In questi giorni l'Ocse ha diffuso le previsioni sulla crescita del Pil nei Paesi più industrializzati del mondo. Per quanto riguarda l'Italia, l'Organizzazione prevede per il 2014 un calo del Pil italiano dello 0,4% che fa del nostro Paese l'unico del G7 in recessione. In un contesto in cui le previsioni 2014 degli altri competitor più importanti sono viceversa tutte orientate alla crescita: Germania +1,5%, Francia +0,4%, Usa +2,6%, Gran Bretagna addirittura +3,1%. Per non parlare di Cina (+7,4%) o India (+5,7%).
Se la realtà si rivelasse questa ed è difficile pensare oggi che non sia così, come possiamo giudicare allora le previsioni risultanti dal Def governativo presentato lo scorso aprile, quindi solo cinque mesi fa?
In quel corposo documento, è bene ricordarlo, ad anno ormai abbondantemente in corso, si prevedeva un aumento del Pil 2014 dello 0,8%. E non certo una sua contrazione. Anzi, commentando a suo tempo quel dato il premier Renzi aveva assicurato, in conferenza stampa, che le stime erano state dettate da "estrema prudenza e aderenza alla realtà", concludendo con la fondata speranza che queste sarebbero state addirittura "smentite in positivo". Ancora a giugno di quest'anno, quindi a metà 2014, nel corso di una conferenza stampa organizzata dal Consolato italiano a New York, il Ministro Padoan aveva esplicitamente assicurato che "le previsioni di crescita non cambiano e restano quelle del Def". Solo pochi giorni fa il premier si era risolto a cambiare registro, dovendo ammettere che "i dati del 2014 non saranno entusiasmanti" e che "il Pil del 2014 sarà intorno allo zero".
Un premier ed un ministro in precedenza troppo ottimisti? In realtà no, "ottimisti" esattamente così come lo sono sempre stati tutti i loro predecessori.
Il Def del governo Letta di settembre 2013 aveva previsto un aumento del Pil 2014 dell' 1%. L'allora Ministro dell'Economia Saccomanni, sempre in conferenza stampa, aveva definito la previsione "fatta con cognizione di causa" e, per essere ancora più tranchant, aveva ribadito che doveva ritenersi "né euforica, né trionfalistica".
Ancora prima, il Def 2012 del governo Monti aveva previsto un Pil 2013 di 1.627 miliardi che poi, a conti fatti, sono risultati 1.557. Anche il Def 2011 del governo Berlusconi aveva previsto un Pil 2012 di 1.642 miliardi, che poi sono risultati 1.567.
Se andassimo ancora a ritroso, i risultati non sarebbero diversi. Sempre stime assai superiori al risultato che poi, concretamente, si sarebbe conseguito in seguito.
E mai nessun politico che in tali circostanze abbozzi una qualche giustificazione ovvero, se del caso, addirittura un'autocritica. Ma neppure nessuno - bisogna dire anche questo - che dalla società civile a quei politici chieda seriamente di rendere conto.
Invece, se vogliamo davvero cambiare questo Paese, oltre ad una maggiore cultura del programma e del rendiconto, abbiamo estremo bisogno anche di una tecnica contabile che sappia formulare delle previsioni su cui si possa, una volta tanto, fare concreto affidamento. Non più numeri scritti invariabilmente sulla sabbia.
Altrimenti resteremo sempre il Paese di Pirandello: così è (se vi pare).
23/09/2014 Messaggero Veneto