Non sono i dazi la soluzione, soprattutto per noi

La decisione di Donald Trump di imporre dazi doganali sulle importazioni USA di acciaio e di alluminio apre le porte ad una vera e propria guerra commerciale a livello globale i cui confini sono imprecisati e rischiano di riguardare significativamente anche il nostro Paese. Il dazio è sostanzialmente un’imposta indiretta che uno Stato applica alle importazioni col dichiarato scopo di proteggere dalla concorrenza i beni e i servizi dello stesso tipo prodotti al suo interno.

Non si tratta certamente di una novità visto che i dazi esistono da duemila anni, tanto che si può senz’altro affermare che tutta la storia economica dell’universo si sia evoluta all’interno di gabbie doganali. Dazi e gabelle sono stati infatti a lungo onnipresenti non solo tra i diversi Stati ma anche, al loro interno, tra regioni o città. A ricordarcelo basterebbe l’esilarante scena di un celebre film di Troisi e Benigni, ambientato nel Medio Evo, dove ad ogni passaggio di dogana, anche per andare solo a riprendere un sacco di farina caduto in precedenza, immancabilmente veniva richiesto ai protagonisti di pagare ogni volta un fiorino.

I dazi non hanno però sicuramente frenato lo sviluppo dell’economia, anzi si può dire che in passato almeno in parte abbiano contribuito addirittura a finanziarla.
Tuttavia la globalizzazione ha progressivamente allargato i mercati e, di conseguenza, ha ridotto la diffusione dei dazi o comunque contenuto gli effetti di quelli esistenti. Nel tempo si sono infatti succeduti diversi accordi internazionali che hanno inteso regolamentare, almeno in parte, le possibilità di azione dei singoli Stati (GATT, WTO e, più recentemente, TTIP). Nell’Unione Europea, poi, vige il libero scambio e qualunque dazio non è pertanto consentito. Questo non ha però arrestato le spinte protezionistiche che attualmente sono alimentate dal perdurare della crisi economica e dalla diffusa percezione di insicurezza che suscitano oggi i flussi migratori.

Ma sono effettivamente i dazi una misura utile nella direzione della tutela della produzione di una nazione e della difesa del lavoro e dei salari dei suoi cittadini? Temo di no. E bisogna dirlo con chiarezza sfuggendo dalla suggestione sovranista che, in un mondo appunto globalizzato, finisce più per marginalizzare i Paesi che ne sono sostenitori, specie se piccoli, piuttosto che rafforzarli.

Infatti, chi alza i dazi con la scusa di proteggere i propri settori produttivi, promettendo così la difesa dei posti di lavoro nazionali, scatena inevitabilmente reazioni a catena di segno opposto. Crescono così i prezzi dei prodotti importati e di quelli con componenti di importazione con conseguente diminuzione del potere di acquisto dei consumatori nazionali. E se il libero commercio accresce in genere la concorrenza e stimola l’innovazione, il protezionismo, invece, finisce per impigrire la creatività ed il dinamismo dei produttori domestici. A livello generale, poi, la discesa del commercio mondiale arresta la crescita globale, accentua le differenze e apre la porta a crisi valutarie. Aumentano così pure i rischi di instabilità politica.

Quanto all’Italia, non dimentichiamo che quel poco di crescita che in questi anni difficili siamo riusciti a realizzare è legata proprio all’export. Sarebbe davvero suicida minare ancor di più questo settore, più di quanto non siano già riusciti a farlo l’imposizione fiscale e la nostra burocrazia.

In ogni caso, tra produttore e consumatore, se proprio ci si deve schierare da una parte, bisogna sempre scegliere il secondo. Altrimenti si finisce per favorire anche la corruzione e gli interessi dei pochi a discapito di quelli dei tanti.

Claudio Siciliotti
@csiciliotti
@claudio.siciliotti

16/03/2018 Il Messaggero Veneto