E’ ormai diventata una consuetudine, in situazioni di conclamata emergenza quando la via d’uscita non può sicuramente essere quella di limitarsi a proseguire sulla strada sino a quel punto percorsa, ricorrere alla suggestione del “Piano Marshall”. “Qui ci vuole un Piano Marshall”, si dice infatti in questi casi. Una sorta di antidoto obbligato, la soluzione efficace per ogni situazione di crisi drammatica. Anche il Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel e la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen non hanno fatto eccezione a questa consuetudine quando, all’atto della presentazione del “Recovery Plan” europeo, hanno fatto riferimento a questo strumento come una sorta di “Nuovo Piano Marshall”.
In realtà il piano presentato nel lontano 1947 dal Segretario di Stato dell’amministrazione Truman, George Marshall, all’Europa ha ben poco a che vedere con la situazione attuale. L’originario Piano Marshall (“European Recovery Program”) offriva all’Europa circa 13 miliardi di dollari di aiuti (poco più dell’1% del Pil americano ed il 2,7% dei 16 Paesi riceventi), per garantire sostanzialmente all’America che la ripresa post bellica avvenisse in Europa all’insegna dell’alleanza atlantica, consolidando un campo omogeneo in funzione antisovietica. E forse anche per avviare la ripresa europea su modelli di vita e di consumo tipici della società americana. Come poi, in larga parte, è avvenuto. Quindi nessuna volontà filantropica all’epoca da parte degli Stati Uniti, quanto piuttosto un piano che servisse ai promotori non meno che ai suoi destinatari.
Oggi è del tutto diverso. L’Europa vara il suo piano per aiutare se stessa. E non altri. Attraverso lo stanziamento di risorse proprie. Non altrui. Risorse destinate certamente a risollevare le economie continentali, ma soprattutto a consolidare l’integrazione all’euro e all’unione bancaria sulla strada di un percorso di crescita dell’idea stessa di un’Europa come attore politico, non solo economico o monetario. Le stesse risorse messe in campo sono eccezionalmente rilevanti (i 209 miliardi destinati all’Italia costituiscono quasi il 12% del nostro Pil 2019 e, presumibilmente, ancora di più con riferimento al Pil 2020, atteso che la sua contrazione è ormai stimata a doppia cifra). Una rilevanza di intervento che colloca il nostro Paese come quello maggiormente beneficiato, rispetto a tutti gli altri Paesi dell’Unione. E non per effetto – sia chiaro – dell’abilità negoziale dei nostri politici, quanto piuttosto per la riconosciuta constatazione che l’Italia è la “cenerentola” d’Europa in quanto a crescita, debito e produttività del lavoro. E quindi ha più bisogno d’aiuto di tutti gli altri.
Non deve stupire allora che, in questo contesto, ci venga chiesto di produrre un dettagliato piano di riforme e di investimenti strutturali che sia al tempo stesso utile per noi, ma anche convincente per chi è consapevole di finanziare un Paese che, a prescindere dal Covid, ha grandi responsabilità dello stato in cui versa. Dimentichiamoci allora che ad un Paese che ha la più alta evasione fiscale e la più rilevante ricchezza privata d’Europa possa consentirsi di usare le disponibilità europee per abbassare le tasse ai propri cittadini (come viceversa ci viene sempre promesso, salvo poi non farlo mai), oppure di proseguire nella politica dell’assistenzialismo come strumento di ricerca del consenso (bonus a pioggia, reddito di cittadinanza, quota 100 …). E’ pertanto del tutto ragionevole che ci venga chiesto di dire con chiarezza, in un’ottica di ripresa europea (e non solo nazionale), come intendiamo spendere questi fondi, in linea con le raccomandazioni e le priorità indicate dall’Unione Europea. E di farlo anche presto. Esattamente entro il 15 ottobre. Siamo consapevoli che l’Italia che verrà dipenderà in larga parte da come sapremo usare questo poco tempo.
Claudio Siciliotti
@csiciliotti
@claudio.siciliotti
28/07/2020 Il Messaggero Veneto