Intervenendo alla celebrazione dei 240 anni della Guardia di Finanza, il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan ha detto che "è urgente intervenire per contenere l'elevata pressione fiscale che è ostacolo al ritorno a ritmi di crescita in linea con i partner internazionali". "Serve un fisco più equo - ha aggiunto - un fisco più equamente distribuito consentirà infatti ai cittadini di affrontare meglio lo snodo che stiamo vivendo".
È proprio così. Difficile, per non dire impossibile, dargli torto. Ma in quale direzione bisogna allora intervenire oggi con più urgenza? In che modo si può passare efficacemente dalle parole ai fatti?
Credo sia necessario partire da alcuni assunti fondamentali la cui evidenza, pur sotto gli occhi di tutti, è stata sinora per troppo tempo trascurata.
Senza impresa non si crea lavoro. Oggi l'eccessiva pressione fiscale sulle imprese schiaccia l'una e l'altro. E, alla fine, schiaccia anche il nostro Paese.
Si può dire che mai, come in questo momento, gli interessi degli imprenditori coincidano con quelli dei loro dipendenti. È ora di rendersene conto e di trarne, senza più ulteriori esitazioni e rinvii, tutte le dovute conseguenze.
Infatti non è tanto la pressione fiscale complessiva a creare le maggiori difficoltà per l'agognata ripresa. Una pressione complessiva che comunque, come ci ha di recente ricordato la Corte dei Conti, ha raggiunto nel nostro Paese la quota ufficiale del 43,8% (quasi 3 punti in più rispetto al 2000 e ben 4 rispetto alla media Ue). Una pressione che la stessa Corte ha però definito non solo "eccessiva" ma anche "mal distribuita". È proprio questo l'aspetto più importante.
Ciò che deve preoccupare di più, infatti, non è tanto il dato complessivo del prelievo fiscale ma l'abnorme quota che, nel nostro Paese, grava sui produttori di ricchezza. Cioè le imprese. Chi il lavoro lo crea per sè, ma anche per gli altri.
Secondo il rapporto "Paying Taxes 2014" di Banca Mondiale, il cosiddetto "total tax rate", che misura appunto la pressione fiscale sulle imprese, raggiunge in Italia il dato record del 65,8% dei profitti commerciali. Il più alto d'Europa!
Ricordiamo che la Germania è al 49,4% e persino la Svezia (che tutti conosciamo per lo Stato sociale molto garantista ma, proprio per questo, finanziato da alte tasse) sta abbondantemente al disotto di noi (52%). Per non parlare del Regno Unito (34%) o addirittura della vicina Croazia (19,8%). La media Europea è al 41,1%, quella mondiale al 43,1%.
Come si può allora competere, in un'economia che è diventato ormai un tormentone definire "globalizzata", con differenziali come questi? Come si possono attrarre così gli investimenti stranieri ed impedire la delocalizzazione delle imprese rimaste sul nostro territorio se la realtà è questa? Come si può non pensare che solo attraverso un robusto alleggerimento della pressione fiscale sulle imprese sia possibile nutrire delle realistiche, e non più illusorie, aspettative di crescita? Quale ripresa si pensa ragionevolmente di poter "agganciare" (altro termine da troppo tempo abusato) se permane questa zavorra?
Non basta, non può bastare, in questa direzione il troppo timido taglio dell'Irap (-5% sul 2014, -10% sul 2015) recentemente varato dal Governo.
Un taglio, oltretutto, finanziato con l'aumento dell'imposta sostitutiva sulle rendite finanziarie, lasciando invariata la tassazione sui titoli di Stato. Così si favorisce ulteriormente il finanziamento dello Stato, a scapito proprio di quello alle imprese.
Per l'Irap deve essere invece avviato un processo di graduale e progressiva eliminazione. Non si può continuare ad eludere il problema. Perché l'Irap, specie in periodi di crisi, è una vera e propria "patrimoniale" sulle imprese. Un'imposta che penalizza chi produce nel nostro Paese rispetto a chi delocalizza. Non solo, ma penalizza anche chi assume ed è costretto ad indebitarsi. E non sono forse questi i maggiori problemi che vessano oggi le nostre imprese: la crisi che continua ad incombere, la tentazione di delocalizzare, la difficoltà di assumere e la necessità di ricorrere al credito?
Così come va ripensata, in generale, anche la tassazione del reddito d'impresa, rendendo il reddito civilistico sempre più vicino, per non dire coincidente, con l'imponibile fiscale. Le norme sui bilanci societari sono infatti sempre più stringenti e vincolanti, oltrechè sempre più convergenti a livello internazionale. Non c'è davvero motivo per sostenere oggi che un risultato economico determinato in questo modo non possa essere la base più adeguata anche per il calcolo del prelievo fiscale. In questo contesto va anche rimossa al più presto la più palese delle ingiustizie: la norma che limita oggi la deduzione fiscale dal reddito d'impresa degli interessi passivi. In questo Paese infatti, le imprese non solo pagano le tasse sugli utili, ma finiscono per pagarle addirittura sui costi effettivamente sostenuti. Quei costi costituiti appunto da una parte degli interessi passivi di cui sono costrette a gravarsi per sostenere la produzione e gli investimenti.
Spesso si parla di "paradisi fiscali". In casi come questi vien da pensare che talvolta lo siano semplicemente perché da noi la tassazione è, e resta, davvero un "inferno".
27/06/2014 Messaggero Veneto