La parola "bonus", nell'accezione comune nel mondo del lavoro, sta ad indicare una sorta di incentivo economico, una speciale gratifica che va a premiare la riconosciuta qualità di un particolare lavoro svolto. Di solito, elargita ad integrazione dello stipendio base. Nel comune lessico familiare, sta più semplicemente ad indicare una gradita sorpresa, tanto piacevole quanto inattesa.
In questi ultimi tempi però questa parola ha ampiamente superato gli ambiti di tradizionale utilizzo, venendo associata alle principali azioni dell'attuale governo. Non esattamente a proposito, se la si confronta proprio con le sue accezioni maggiormente diffuse.
Si è parlato infatti di "bonus Renzi" per intendere lo sgravio fiscale dei famosi 80 euro, confermato a regime dalla Legge di Stabilità 2015, a favore dei lavoratori dipendenti fino a 26 mila euro di reddito annuo. In questo caso, non è risultato proprio agevole comprendere il motivo per cui questo target di lavoratori avrebbe più merito di ricevere attenzioni fiscali di quante non ne abbiano altri soggetti che la norma ha invece del tutto ignorato. Per intenderci, i pensionati piuttosto che gli autonomi o i disoccupati.
Ma oggi si riparla nuovamente di "bonus".
Questa volta del "bonus Poletti", per intendere con ciò quanto il governo prevede di corrispondere ai 3,7 milioni di pensionati per effetto della declaratoria di illegittimità, pronunciata dalla Corte Costituzionale, della legge Fornero che aveva bloccato l'indicizzazione delle pensioni superiori ai 1.490 euro dal 2012.
Secondo i calcoli si tratterà di un importo variabile tra i 278 e i 750 euro, a seconda dell'assegno percepito. Dalla misura saranno però esclusi i pensionati con assegni superiori a 3.200 euro mensili. Si tratta di una restituzione "una tantum", che quindi vale solo per il 2015. Dal 2016, gli assegni così rimpolpati saranno nuovamente rivalutati rispetto all'inflazione.
In questo caso va dato atto al governo di aver fronteggiato la situazione con tempestività (e, per certi versi, anche con equità) ed appaiono francamente incomprensibili molte delle critiche di chi quella legge, rivelatasi oggi anticostituzionale, ha a suo tempo votato.
Tuttavia il reiterato utilizzo della parola "bonus" è - diciamolo francamente - ancora una volta fuori luogo.
Non si dà infatti qualcosa per premiare chi merita di più, ma semplicemente si restituisce oggi ciò che in precedenza era stato illegittimamente tolto. E, per giunta, come detto, non lo si dà neppure a tutti.
È solo un'involontaria imprecisione lessicale o questo reiterato abuso della parola "bonus" tende a voler rappresentare una realtà esteriore diversa da quella effettiva?
Bisogna dirci allora con chiarezza che non si può pensare di risolvere il nodo fiscale solo con il "bonus Renzi". E neppure quello previdenziale unicamente con il "bonus Poletti".
Una grande riforma del fisco, orientata ad un sensibile alleggerimento delle tasse sul lavoro (tutto il lavoro, dipendente ma anche autonomo) ed una riforma previdenziale, meno penalizzante per i nostri giovani (che sono poi i pensionati di domani), sono sul tavolo dei governi da troppo tempo. Senza finora delle reali risposte di sistema al riguardo. Le tanto decantate "riforme strutturali". Così come manca ancora una severa politica di "Spending Review". Una politica che permetta di recuperare le risorse necessarie per poter fare effettivamente queste riforme nel senso desiderato.
Solo così, dopo sette anni disastrosi in cui si è perso un decimo della nostra produzione nazionale, potremo ambire a rendere stabile la timida crescita che oggi si profila all'orizzonte. Una crescita che, comunque, resta pur sempre al disotto della media dell'Eurozona.
Un cambio di passo. Di questo c'è allora bisogno.
Anche perché solo di "bonus" in "bonus", stiamone sicuri, non si va certo lontano.
Claudio Siciliotti
@csiciliotti
28/05/2015