In un’Italia che certamente deve e vuole cambiare verso c’è un tema decisivo in questa direzione che, viceversa, risulta ancora oggi ampiamente trascurato. Quello della mobilità economica e sociale. In altre parole, quello dell’indipendenza del futuro di ciascuno dalle proprie condizioni di origine. Quelle per le quali non si può vantare alcun merito, ma neppure dover scontare alcuna responsabilità. E fare in modo che la posizione occupata da ciascuno nella società risulti indipendente dalle appartenenze familiari, è non solo motivo di giustizia sociale, ma anche di efficienza economica. In tal modo, infatti, si permette ai migliori di poter essere collocati nei posti nei quali possono dare il loro maggior contributo, mentre l’avere dei beneficiati di sole relazioni sociali (e non di merito) in posizioni di responsabilità finisce per essere una grave perdita per l’intera collettività. E non solo per le sue conseguenze sull’immobilità economica e sociale. La capacità di raggiungere posizioni di prestigio unicamente grazie alle relazioni sociali infatti, oltre a privarci delle risorse migliori, finisce per produrre valore solo per chi tali relazioni le possiede, ma non conferisce alcun vantaggio competitivo alla società nel suo complesso. La mobilità di una società si misura dalla probabilità che hanno i figli di collocarsi in uno status occupazionale e sociale diverso da quello dei loro genitori. Da questo punto di vista l’Italia risulta essere, nel panorama internazionale, uno dei Paesi con la più bassa fluidità sociale. Si resta in sostanza dove si è. Purtroppo indipendentemente dal merito e dal talento individuale. Non solo si allarga la forbice della ricchezza ma anche le disuguaglianze si ereditano e, sempre più, sono distribuite per nascita. Quest’ultima si conferma così una sorta di lotteria che fa sì che il futuro non possa risultare uguale per tutti. Tuttavia tanto il fenomeno è noto, tanto è sotto gli occhi di tutti, tanto poco se ne vedono però in cantiere i provvedimenti destinati a porvi l’auspicato rimedio. Si parla troppo spesso - e tutti si dichiarano d’accordo - di uguaglianza delle opportunità e non dei risultati. Ma poi attraverso quali misure si assicurano in concreto queste opportunità uguali per tutti? Come si fa ad annullare le disuguaglianze inaccettabili che, in quanto tali, sono ovviamente diverse dal merito e dall’impegno, che attribuiscono ancora oggi un’influenza determinante alle relazioni sociali di cui dispone la famiglia di origine oltre ai vincoli, soprattutto economici, che separano il raggiungimento di una laurea per i figli delle famiglie più disagiate? Bisogna discuterne seriamente, non solo strillare e insultarsi a vicenda. Forse allora sarebbe giusto riparlare di tasse di successione e non solo e sempre di tasse sulle case, perché considerare le ricchezze dei padri come una sorta di proprietà esclusiva dei figli, a ben vedere, contrasta in radice con quell’idea condivisa dell’uguaglianza delle condizioni di partenza. Qualcuno dice che ciò diminuirebbe l’impegno lavorativo dei genitori. Certamente. Ma aumenterebbe parallelamente anche lo sforzo e la motivazione dei figli. E questo, in chiave futura, mi sembra oggettivamente ben più importante. Bisogna però anche affrontare il tema di una significativa detassazione del lavoro giovanile, magari in misura graduata in funzione del reddito della famiglia di origine. Più alto è quest’ultimo, minore risulterà lo sgravio. In questo modo daremmo anche più forza, creando maggiore coinvolgimento sociale, al contrasto all’evasione fiscale perchè, se dovesse risultare evasore chi ha di più, la detassazione graduata del lavoro giovanile in base al reddito familiare finirebbe per aggravare, invece che ad alleviare, la trasmissione intergenerazionale. Facciamo anche sì che risulti non più possibile che esistano retribuzioni differenziate a parità di prestazioni e di requisiti per svolgerle. Tanto più se a beneficiarne è quasi sempre chi è assunto a tempo indeterminato, rispetto a chi ha un contratto a termine. Combattiamo pure tutte quelle posizioni di rendita che consentono arbitrii nell’uso delle risorse e nella scelta delle persone. Riprendiamo infine in esame quelle proposte che prevedono la concessione di prestiti agli studenti svantaggiati da restituirsi quando, proprio grazie all’ottenimento di un titolo di studio qualificato, si sarà conseguita l’agognata occupazione. Facciamo almeno qualcuna di queste cose o anche altre - non è difficile promuovere un concorso d’idee sul tema - ma che vadano comunque nella direzione di rimuovere quelle inaccettabili disuguaglianze che ostacolano ancora oggi la vera uguaglianza delle opportunità. Una società cresce se facilita e non ostacola i “sorpassi” quando questi sono giustificati dall’impegno e dal talento individuale ed il progresso richiede che chi è già di per sé avvantaggiato non possa confidare di poter addirittura blindare anche per il futuro i vantaggi che gli sono derivati dalla sua origine. Ma di questi temi si parla ancora troppo poco. E invece, passate queste elezioni europee, devono diventare il vero banco di prova, soprattutto per la nuova politica che propone Matteo Renzi che, di questa competizione, è risultato l’incontrastato vincitore. Per poter anche misurare il suo reale grado di affrancamento dalle potenti lobby che hanno sinora sempre efficacemente difeso la conservazione dei vantaggi esistenti. A meno di essere costretti a convenire con quanto diceva, con cinica ironia, il compianto Roberto “Freak” Antoni: «In Italia non c’è gusto ad essere intelligenti».
11/06/2014 Messaggero Veneto