A meno di due mesi dalle elezioni europee il dibattito politico è condizionato dalle suggestioni dei movimenti anti-euro che, facendo leva sul diffuso malcontento creato dalla crisi economica, fanno dell'uscita dell'Italia dalla moneta unica la loro bandiera. Va detto che questo diffuso malcontento trova terreno fertile anche nella distanza che oggigiorno separa sempre di più le istituzioni europee dai suoi cittadini. Troppo spesso infatti, nel recente passato, abbiamo assistito a scelte di corto respiro che, nell'insistere solo su una divisione manichea tra Stati virtuosi e no, hanno fatto perdere di vista l'originario progetto europeo che, per risultare realmente attrattivo, deve per forza essere in primo luogo inclusivo e solidale.
In questo contesto, il dibattito sull'argomento "euro-si/euro-no" si incentra spesso in termini di mera convenienza piuttosto che di reale possibilità. In altre parole si disserta se convenga o meno uscire dall'euro, piuttosto che soffermarsi sul fatto che ciò sia realmente possibile. Per affrontare seriamente il problema credo invece che si debba partire prima di tutto dall'esame delle effettive possibilità che oggi esistono di un'uscita dalla moneta unica. Possibilità da intendersi in senso sostanziale e non solo meramente formale. Da questo punto di vista, i trattati europei non prevedono la possibilità di recedere dalla moneta unica senza uscire anche dall'Unione Europea, per cui un'eventuale scelta in tal senso comporterebbe la perdita di tutti i benefici a questa collegati in termini di libera circolazione delle persone, delle merci e dei capitali. Si correrebbero inoltre i rischi di un possibile (e costoso) contenzioso internazionale con conseguenti attacchi speculativi dei mercati. Ma, a parte quanto precede, ciò che va considerato è che il "Piccolo mondo antico" della lira è definitivamente tramontato con la globalizzazione. Come ha scritto di recente il Presidente Ciampi "la globalizzazione ha cambiato gli uomini, i popoli e il loro modo di agire, di pensare e perfino di sperare". Le stesse filiere produttive sono ormai di fatto sempre più "globali". Non siamo più nella situazione in cui le imprese delle economie più avanzate producono interamente in casa loro i beni e i servizi, limitandosi ad importare soltanto le materie prime. Ne consegue che una svalutazione del cambio finirebbe per rendere più costose queste importazioni, annullando in tal modo l'eventuale guadagno di competitività derivante dai minori prezzi di vendita. Senza contare che se c'è un settore produttivo che in Italia oggigiorno ancora funziona, quello è proprio l'export che in questi anni, nonostante la recessione ed il cambio forte, ha comunque tenuto a galla la nostra economia. Questo per dire che uscire dall'euro è praticamente impossibile se si vuole continuare a competere nel mondo globale in posizioni di prima fila, senza il rischio di marginalizzare sia la nostra incidenza economica che la nostra rilevanza politica.
Anche in termini di semplice convenienza le considerazioni non portano a conclusioni diverse.
Già chiarito infatti che la svalutazione porterebbe benefici limitati alla competitività delle nostre imprese, va considerata la più che probabile esplosione dei costi energetici e le ancor maggiori difficoltà dei sistemi bancari, sempre più in crisi, di concedere nuovo credito per supportare gli incrementi di produzione e soddisfare così i nuovi ordini derivanti dalla svalutazione. Per quanto riguarda le famiglie, la svalutazione comporterebbe l'impoverimento di risparmi e patrimoni, oltre al ritorno di un'inflazione a due cifre. Nemmeno il nostro Stato, poi, se la passerebbe meglio. Si vedrebbero schizzare di nuovo in alto i tassi d'interesse, dovendo inoltre considerare che parte significativa del nostro debito finirebbe per ritrovarsi, di fatto, in valuta estera. E, per di più, rivalutata.
Diciamo allora che il nostro problema non è l'euro.
Il nostro problema è la persistente incapacità di riformarci, l'inefficienza della nostra giustizia civile, la complessità della burocrazia, l'incapacità di ridurre gli sprechi, l'eccessivo costo della macchina pubblica e la conseguente abnorme pressione fiscale che scoraggia gli investimenti e deprime l'occupazione.
Non attribuiamo quindi alla moneta unica colpe che in realtà non ha. L'impossibilità di svalutare ha solo fatto emergere e non ha più nascosto le vere ragioni della nostra crisi. Una crisi che, in Italia, è prima di tutto la conseguenza di un sistema Paese che non abbiamo ancora saputo e, forse, voluto cambiare.
Certamente anche il percorso che ha portato alla creazione della moneta unica non può dirsi esente da critiche. Si può infatti certamente dissentire su una parità sicuramente mal negoziata ovvero su un "change over" incontrollato che ha permesso un'eccessiva lievitazione dei prezzi. Ma è ormai acqua passata.
Oggi si deve discutere piuttosto delle funzioni della Banca Centrale e delle regole della finanza pubblica, fin qui troppo orientate al rigore e non anche allo sviluppo. Così come si deve discutere di istituzioni europee ancora troppo complesse e distanti dai cittadini. Istituzioni che sfornano normative sempre più difficili da comprendere e, spesso, anche da condividere. Lasciamo quindi da parte i sogni demagogici che finiscono solo per scaricarci la coscienza ed attribuire ad altri, o ad altro, ciò invece compete solo a noi. Ben sapendo però che se i leader europei non sapranno effettivamente lavorare nella direzione di semplificare e legittimare agli occhi dei cittadini le istituzioni che amministrano, sconfiggendo anche la burocrazia che esiste pure a Bruxelles, non sarà comunque facile averla vinta su ogni forma di populismo.
15/04/2014 Messaggero Veneto