I principali dati del debito pubblico del nostro paese sono ormai noti anche all'opinione pubblica non specializzata.
Si sa, per esempio, che la quota dei 2 mila miliardi è stata ampiamente superata e che l'incidenza del debito sul PIL oltrepassa ormai oggi il 130%. Tanto da fare del debito italiano il più pesante dell'Eurozona dopo quello della Grecia.
Si sa anche che questo rapporto debito/PIL è ritornato ad esplodere a partire dal 2008 dopo che, per tanti anni, faticosamente, era invece progressivamente ridisceso dai livelli record raggiunti nell'ormai lontano 1994.
In pratica la crisi ci ha riportato, in pochi anni, allo stesso punto dal quale, con tante difficoltà e ben più tempo, ci eravamo allontanati. Un rapporto che oggi è ancora ulteriormente cresciuto fino a toccare appunto il 133,3% secondo le rilevazioni dell'Eurostat, con riferimento ai dati del secondo trimestre 2013.
In questo contesto appare francamente difficile negare che la riduzione del debito sia oggi una assoluta priorità; così come non si può non ammettere che, in questi anni, assai poco è stato fatto di concreto in questa direzione.
Certamente anche la stagnazione del PIL, provocata dalla crisi, ha giocato il suo ruolo ma non è di per sè sufficiente a far sì che una semplice concausa possa trasformarsi in un'esaustiva giustificazione.
Il debito pubblico, come è noto, rappresenta in sostanza il debito contratto dallo Stato nei confronti di tutti quei soggetti, pubblici e privati, nazionali ed esteri, che, sotto forma di obbligazioni o di titoli di Stato, hanno erogato credito per coprirne il disavanzo del fabbisogno finanziario ed il deficit di bilancio.
Il debito pubblico è peraltro una costante in tutti i Paesi del mondo. Non è quindi tanto questo il tema principale. E, per certi versi, neppure la sua incidenza sul PIL.
Lo dimostra in questo senso il caso del Giappone che ha un debito che ha superato il milione di miliardi di yen (7,7 mila miliardi di euro) pari addirittura al 245% del suo PIL. In questo caso però oltre il 90% del debito è in mani giapponesi, gli interessi sono bassi e la Bank of Japan ha comunque la possibilità di stampare moneta. Così l'economia giapponese resta la terza economia del pianeta e può esibire un tasso di disoccupazione che è meno della metà di quello europeo.
C'è allora qualcos'altro che va considerato. Qualcosa su cui le attenzioni sinora dedicate sono risultate senz'altro inferiori rispetto al tema dello stock di debito e del suo rapporto con il PIL.
È infatti piuttosto la relazione del debito pubblico con l'economia reale del Paese che fa del debito stesso un problema sostenibile oppure no.
È quindi necessario guardarci dentro. Bisogna prendere in esame la dinamica del debito e la composizione di quelli che ne sono i soggetti detentori.
Da questo punto di vista, a partire dalla fine degli anni '90, il processo di convergenza verso la moneta unica ha determinato una rapida "europeizzazione" del nostro debito, con una crescita decisa della quota detenuta dal settore bancario estero arrivata a superare la soglia del 50% del totale. Dall'insorgere della crisi, viceversa, si è verificata una riduzione decisa della quota detenuta dagli investitori esteri (oggi circa il 35%), assorbita però integralmente dagli investimenti delle nostre banche nazionali.
Oggi le banche italiane detengono oltre la metà del nostro debito, mentre la quota degli investitori privati è ormai ridotta al 10% (rispetto al 40% del periodo pre-euro). Quindi la stragrande maggioranza dei possessori di titoli di Stato italiani sono banche, assicurazioni e fondi pensione, soprattutto nazionali.
Questa situazione determina due tipi di conseguenze. Entrambe distorsive per l'economia del nostro Paese e per le sue possibilità di ripresa. Conseguenze sulle quali vale la pena di avviare una riflessione.
La prima è che il sistema bancario nazionale ha in questo modo trovato dei guadagni privi di rischio, con rendimenti elevati, che rendono l'investimento in titoli di Stato particolarmente appetibile. Il tutto in un momento di recessione, in cui i profitti derivanti dagli investimenti nell'economia reale naturalmente calano. In questo contesto, anche i provvedimenti cosiddetti "antispread", che riducono ulteriormente il rischio sui titoli governativi, finiscono per rendere il loro acquisto ancora più vantaggioso proprio per le banche.
La seconda conseguenza è che, essendo certamente non infinite le risorse finanziarie a disposizione delle banche, se queste sono dirottate sul canale governativo, vengono però a mancare per il finanziamento di imprese e famiglie.
È proprio questa la situazione che in concreto si verifica oggi.
Il cosiddetto "credit crunch" che sta tuttora aggravando l'infinita recessione dell'economia italiana.
Anche le cospicue immissioni di liquidità da parte della BCE non hanno affatto modificato questo trend. Anzi l'hanno consolidato. Gli interventi a favore del sistema bancario italiano sono stati infatti da questo utilizzati più per incrementare la quota di debito governativo posseduto che per il supporto all'economia reale che, in tal modo, è andato ancora ulteriormente scemando. Così da poter concludere che le misure della BCE hanno paradossalmente aggravato i comportamenti distorsivi delle banche italiane, incentivando ulteriormente l'acquisto di titoli governativi e disincentivando ancora di più i prestiti alle imprese e alle famiglie.
Gli esiti di tutto questo sono oggi drammaticamente sotto gli occhi di tutti: interi comparti del settore manifatturiero italiano sono stati di fatto cancellati pur essendo in grado, altrimenti, di produrre ancora. Sia reddito che occupazione.
Nel mentre si va formando allora il programma del nuovo governo Renzi, a cui il Paese intero è oggi ormai aggrappato, il tema di una decisa sterzata verso politiche di supporto alla crescita che sterilizzino gli incentivi all'acquisto di titoli governativi da parte delle nostre banche a favore della riapertura del credito alle attività produttive, deve porsi come una priorità assoluta. Altrimenti si manterrà forse in vita lo Stato. Ma di un Paese ormai perso per sempre.
27/02/2014 Messaggero Veneto