Non affogare nell'assistenzialismo

Basta andare su internet e digitare la parola “bonus” per scoprire quante declinazioni abbia ormai assunto questa parola nel lessico degli ultimi provvedimenti governativi, peraltro tutti finanziati con ricorso al debito. Detto in altre parole, finanziati con soldi che non ci sono. Per fronteggiare l’emergenza ne è partita una nuova raffica. Bonus baby sitter, bonus vacanze, bonus biciclette, bonus centri estivi, addirittura bonus nonni (sì, proprio così, i nonni pagati dallo Stato per fare … i nonni). A cui si aggiungono il bonus dei 600 euro e, da luglio, pure il bonus degli 80 euro di Renzi, diventati 100 per i redditi di lavoro dipendente fino a 40 mila euro. Senza alcuna selezione logica di priorità e di merito. Soldi (promessi) un po’ a tutti.

Nel frattempo si chiudono gli Stati Generali con parole d’ordine di una banalità assoluta (“modernizzazione, ecologia, inclusione”). Tanto da far dire a qualcuno che ben difficilmente si sarebbe potuto promettere il contrario (“invecchiamento, inquinamento, esclusione”). Oltre a questo, la solita sequela di promesse sentite dire da tempi immemorabili (“fare le riforme”, attuare interventi espansivi per “stimolare la domanda interna”, gli investimenti pubblici da “rilanciare” e “sbloccare”, con l’immancabile evocazione finale di “meno tasse”).

Nel momento in cui il grande problema dell’Italia è la stagnazione della produttività (tra il 1995 e il 2018, il Pil per ora lavorata è cresciuto in media dello 0,4%, contro una media UE dell’1,6%), noi lungi dal provare a porvi rimedio, ci buttiamo a capofitto nell’assistenzialismo fine a se stesso. I produttori di ricchezza si riducono sempre di più (tartassati e dimenticati nei momenti di emergenza) ed una fetta sempre più grande di questo Paese si riduce a dipendere dalla benevolenza dello Stato.

Invece di preoccuparci seriamente dell’educazione dei nostri ragazzi (siamo stati i primi a chiudere le scuole e gli ultimi a riaprirle), come condizione irrinunciabile per creare i presupposti per formare quelle competenze distintive che siano in grado di creare ricchezza, noi ci preoccupiamo sostanzialmente di distribuirla la ricchezza (reddito di cittadinanza, quota 100, bonus per tutti). Non di crearla.

I governi si alternano ad ogni occasione elettorale (dal 1994 in poi nessuna maggioranza di governo è stata confermata dal voto popolare). Ma nessuno ha il coraggio di abolire quei provvedimenti varati dal governo precedente anche se furiosamente osteggiati quando, in precedenza, si sedeva sui banchi dell’opposizione. Sostanzialmente per lo stesso unico motivo. Per non perdere l’appoggio di quegli strati sociali beneficiati (anche se immeritatamente) dai provvedimenti precedenti.

Ma la vera politica il consenso lo crea, non lo insegue.

Le previsioni del Fondo Monetario Internazionale per il 2020 indicano per noi un debito pubblico al 166% (nel 2019, al 135%). C’è da chiedersi come lo ripagheremo questo debito (sempre più alto) con una crescita che non appare in grado di recuperare la crisi (sempre secondo FMI, 2020: -12,8%; 2021: +6,3%) ed una produttività appunto stagnante. E come ridurremo la spesa pubblica (“spending review”: altro vecchio mantra mai attuato) se chi vive di tasse supera sempre chi le paga.

Manca in sintesi un dibattito di politica economica all’altezza della gravità della situazione. Sempre più prevale una politica a corto raggio, con l’unico obiettivo delle prossime elezioni che si prospettano all’orizzonte. Del futuro e delle prossime generazioni, da lungo tempo, non si occupa più realisticamente nessuno.

Ma da quest’ultimo punto di vista, affogare nell’assistenzialismo non è certo la soluzione.

Claudio Siciliotti
@csiciliotti
@claudio.siciliotti

30/06/2020 Il Messaggero Veneto