Da almeno venticinque anni l’economia italiana segna il passo.
Alla vigilia della seconda guerra mondiale (1938), il reddito medio di un italiano era poco più della metà (54%) di quello di un americano, due terzi di quello di un tedesco (66%) e quasi tre quarti di quello di un francese (74%). Quasi sessant’anni dopo, nel 1995, questo divario si era significativamente ridotto. Raggiungendo il 70% del reddito medio di un americano e quasi colmando del tutto le differenze con un tedesco (89%) o un francese (94%).
Il percorso di progressiva convergenza che ci ha portati a raggiungere un livello di reddito non dissimile rispetto ai Paesi più avanzati si ferma però lì. Nel 2016, il reddito medio di un italiano torna ad essere sostanzialmente quello anteguerra rispetto ad un americano (53%) ed un francese (78%) e perde comunque oltre dieci punti percentuali rispetto ad un tedesco (77%). Frutto di una crescita piatta, per effetto di una produttività stagnante per venticinque lunghissimi anni. Tra il 1995 ed il 2018, infatti, il tasso di crescita medio annuo del Pil italiano è stato dello 0,4% contro percentuali superiori o comunque non inferiori all’unità dei nostri competitors di riferimento (Usa 1,6%, Germania 1,3%, Francia 1,0%).
Al tempo stesso, dal 1994 ad oggi nessun governo in carica è stato mai rieletto. Governi che magari sono durati anche di più che in precedenza, ma mentre prima erano espressioni diverse di una maggioranza comunque stabile, dopo le maggioranze si sono alternate ad ogni scadenza elettorale, in un processo di cambiamento continuo. Questa incertezza ha pesato molto. I problemi strutturali di un Paese non possono essere affrontati e tantomeno risolti entro i limiti temporali ridotti ai quali l’incertezza ha sinora obbligato produttori, consumatori e gli stessi decisori politici.
Il risultato è così stato un circolo vizioso tra bassa crescita, alto debito, alta tassazione e instabilità politica. Come si può credere ed investire in un Paese che non è in grado di assicurare rendimenti positivi al capitale? Come si può pensare di poter ridurre il debito se i tassi di interesse risultano sempre superiori a quelli di crescita?
Superfluo a questo punto evidenziare quanto possa impattare sul nostro Paese la sopraggiunta emergenza Covid-19, se queste erano già le condizioni dell’Italia prima dell’effetto economico della pandemia.
Ora più che le ricette per uscire dalla crisi, comunque importanti, appare ancora più significativo convenire sulla necessità di prospettive di medio/lungo periodo necessarie perché un qualsiasi piano che voglia dirsi efficace possa ambire ai risultati che si prefigge. C’è infatti il tempo della semina e quello del raccolto. Che, in natura, non possono mai coincidere.
Pertanto l’allungamento degli orizzonti della politica e delle scelte economiche diventa oggi imprescindibile. E con esso la necessità di ricercare una condivisione ampia nel Paese sugli obiettivi sostanziali, sia politico-istituzionali che economici.
Una visione del futuro in grado di riaccendere in noi un’energia radicale e innovatrice che ci faccia credere che il cambiamento non è un salto nel buio ma è migliore degli effimeri e parziali privilegi che ci garantisce oggi il presente. Una visione che ci induca tutti a guardare oltre la situazione contingente, per costruire il Paese nel quale vorremmo che i nostri figli possano vivere. Per questo non può bastare il lavoro di pochi esperti o di singole “menti brillanti”. Perché nessun progetto può sperare di giungere a compimento senza il convinto appoggio di parti consistenti della società civile che lo condividano e lo facciano proprio.
Che questo sia l’esito di una fase costituente, come da tempo sostengo, o un grande Progetto Paese frutto comunque di un impegno collettivo, non è di per sé dirimente . Ma è decisivo che sia in grado di disegnare finalmente un’Italia in cui valga la pena vivere, lavorare, pagare le tasse e ogni tanto anche votare.
Claudio Siciliotti
@csiciliotti
@claudio.siciliotti
11/06/2020 Il Messaggero Veneto