Però il ticket sanitario è una tassa e non un'imposta

Il ticket sanitario, introdotto in Italia nel lontano 1989, è sostanzialmente una forma di compartecipazione dei cittadini al costo delle prestazioni sanitarie fornite dallo Stato. La logica originaria risiedeva nella necessità di responsabilizzare maggiormente i cittadini, disincentivando in tal modo il ricorso ad un uso eccessivo di farmaci e prestazioni mediche rispetto alle effettive esigenze. Nel tempo, tuttavia, il ticket sanitario ha finito per diventare una voce sempre più significativa di finanziamento della sanità pubblica. Le stime parlamentari parlano infatti di circa 30 miliardi di ticket sanitari pagati di tasca propria, ogni anno, dai cittadini italiani per potersi curare. Da aggiungersi al costo complessivo della spesa sanitaria a carico dello Stato pari a circa 110 miliardi. Il sistema, come è noto, prevede delle soglie di esenzione al ticket per le fasce di reddito più disagiate e per alcune specifiche malattie croniche ed invalidanti. Il risultato è che l'80% delle cure sono destinate a malati che non pagano il ticket e, tra queste, il 50% delle prestazioni riguardano alcune particolari patologie per le quali è prevista l'esenzione senza che, in quest'ultimo caso, sia contemplato alcun limite di reddito per potervi accedere. Le conclusioni che si possono trarre da questo stato di cose sono essenzialmente due: da un lato, che la sanità gratuita in Italia è di fatto un'illusione; dall'altro, che finiscono per essere i ceti più deboli a risultarne maggiormente penalizzati.
Di qui il dibattito attualmente in corso che coinvolge oggi Governo, Parlamento e Regioni per modificare un sistema che è pieno di contraddizioni e che, soprattutto, appare difficilmente sostenibile in chiave futura stante il continuo allungamento delle prospettive di vita della popolazione ed il crescente costo dei farmaci e delle più moderne attrezzature sanitarie. L'idea che pare farsi strada è quella di considerare la condizione reddituale e la composizione del nucleo familiare, fissando però un tetto di reddito anche per poter beneficiare delle esenzioni per patologia. Detto in parole povere, il ricco afflitto da una patologia cronica non potrebbe più beneficiare in futuro dell'esenzione e dovrebbe quindi prepararsi a sostenere il costo delle prestazioni sanitarie cui farà ricorso. Questo maggiore introito dovrebbe, sempre nelle intenzioni, servire ad estendere la fascia di esenzione a favore di chi ne ha maggiormente bisogno.
È giusto? In apparenza certamente si. Chi può sostiene il costo, anche per curare una malattia cronica ed invalidante; chi non può è invece sempre aiutato dallo Stato. Però... C'è un però.
Il ticket sanitario, a ben vedere, è una tassa. Legata quindi ad una specifica e ben individuata prestazione acquisita in cambio. Quella sanitaria appunto. Non è un'imposta che invece, per definizione, è un prelievo coattivo di ricchezza dal cittadino contribuente non connesso ad alcuna specifica prestazione. Le imposte sono progressive per cui si prevede che aumenti l'aliquota all'aumentare dell'imponibile. Le tasse invece sono - o dovrebbero essere - parametrate al costo del servizio ricevuto in cambio. La progressività del sistema tributario italiano, voluta dalla nostra Costituzione, è garantita dall'Irpef le cui aliquote sono immobili dal lontano gennaio 2007. Sarebbe logico allora aspettarsi che il ricco, tramite appunto la progressività, possa dire di aver assolto il suo dovere nei confronti della collettività di contribuire più degli altri. Mediante appunto la sua più alta aliquota marginale Irpef. E se quest'ultima dovesse risultare insufficiente a finanziare lo Stato ed il suo welfare, dovrebbe mettere in conto che questa potrà essere ritoccata in aumento. Ma senza poi essere di nuovo considerato ricco ogni qual volta usufruisce, come ogni altro cittadino, di qualsivoglia servizio pubblico. Invece le aliquote dell'Irpef, come detto, restano immobili per oltre sette anni e, nel frattempo, le tasse non solo aumentano, ma sempre di più fanno riferimento al reddito o addirittura alla ricchezza del cittadino.
Nell'atteso riordino del nostro sistema tributario, più volte annunciato e sempre più indispensabile, sarebbe allora il caso di considerare maggiormente il rispetto di quei principi di fondo dell'ordinamento, troppo spesso oggigiorno disattesi. Anche per evitare che il loro continuo stravolgimento contribuisca a disorientare sempre di più i cittadini, allontanandoli prima dalle istituzioni e poi persino dal loro Paese. Il leader progressista svedese Olof Palme diceva che i democratici non sono mai contro la ricchezza, bensì contro la povertà. E che la ricchezza non è una colpa da espiare, ma un legittimo obiettivo da perseguire. Detto altrimenti, non vanno mai confusi i ricchi con i finti poveri.

02/08/2014 Messaggero Veneto