Industria 4.0, Europa batti un colpo

Uno degli argomenti più caldi dell’odierno dibattito socio-economico è il tema della cosiddetta “Industria 4.0”. La quarta rivoluzione industriale.

Pur non essendoci ancora definizioni esaurienti per un fenomeno attualmente in corso, con questo termine si intende sostanzialmente un processo che porterà la produzione industriale ad essere sempre più automatizzata ed interconnessa. Finora le rivoluzioni industriali del mondo occidentale sono state tre, più o meno coincidenti con la fine di altrettanti secoli.

A fine ‘700, la nascita della macchina a vapore; a fine ‘800, l’avvento del motore a scoppio; a fine ‘900, la nascita dell’informatica.

Tutte le innovazioni accrescono la produttività del lavoro e consentono quindi di realizzare lo stesso volume di produzione con un minor numero di occupati. L’effetto evidentemente positivo è l’abbattimento dei costi di produzione e quindi dei prezzi; l’effetto potenzialmente negativo è la cosiddetta disoccupazione tecnologica, ossia la perdita dei posti di lavoro dei soggetti sostituiti dall’automazione che poi incontrano reali ed oggettive difficoltà di reimpiego.

In realtà, la tecnologia non distrugge tanto i posti di lavoro, quanto piuttosto le funzioni e quindi crea al contempo lo spazio perché altre nuove funzioni si vadano affermando. Tuttavia la transizione non è indolore e soprattutto non è immediata. E’ sempre stato così e sempre così sarà. Il tema non è quindi quello di ostacolare le innovazioni che risparmiano lavoro, quanto quello di individuare criteri e politiche che consentano di distribuire sull’intera collettività gli enormi benefici del progresso tecnologico.

Va pertanto avviata una riflessione non solo sull’incentivazione dell’innovazione ma anche su un’espressa politica di redistribuzione dei frutti del progresso tecnologico. Non credo, al riguardo, che una risposta efficace sia la cosiddetta “robotax” proposta dal fondatore di Microsoft Bill Gates. La proposta di tassare i robot è probabilmente solo una straordinaria provocazione, destinata ad aprire un dibattito mondiale su futuro, innovazione e progresso sociale. Oltretutto l’effetto sarebbe trascurabile e destinato probabilmente, soprattutto nel nostro paese, a continuare a pagare quelle spese correnti che non si sa (o non si vuole) tagliare.

Neppure penso si debba correre dietro a proposte come il reddito di cittadinanza.

Infatti, se questo è effettivamente tale e quindi legato solo a criteri di appartenenza ad una comunità senza alcuna limitazione connessa alla condizione economica, è insostenibile a livello di costo, oltre che ingiusto perché finirebbe per beneficiarne anche chi non ne ha bisogno. Anche il concetto di reddito minimo garantito, concepito come un’integrazione di reddito che lo porti ad un minimo accettabile, presenta controindicazioni. Al disotto della soglia, tanto vale prendersi il minimo e mettersi a fare altro.

Quanto infine ai vari sussidi di inclusione, la loro variabilità locale finisce addirittura per creare delle ingiustificate disuguaglianze, discriminando tra poveri degni di aiuto e quelli che non lo sono. Per un problema così vasto, la soluzione non può che essere europea. Sennò a che serve davvero l’Europa?

Abbiamo bisogno di un grande progetto comunitario di sostegno all’innovazione e di redistribuzione dei suoi frutti. Accompagnato, questo sì a livello nazionale, da una riforma della pubblica istruzione che, con metodi e materie del tutto innovativi, prepari i nostri giovani a competere prima e meglio sul mercato del lavoro che è ormai globale.

E’ inutile aspettarsi tempi migliori se non si ha anche la lungimiranza di saperli preparare.

 

Claudio Siciliotti
@csiciliotti

15/05/2017 Il Messaggero Veneto