La diversità come fattore competitivo per superare la crisi. Un'occasione irripetibile per il governo Letta

È in questo 2013 che la crisi economica, iniziata ormai cinque anni fa, sta manifestando i suoi effetti più significativi. Quantomeno nel nostro Paese.
Sono sempre di più imprese che chiudono, i disoccupati crescono, i giovani sono senza prospettiva di poter trovare quelle opportunità di lavoro che i più anziani invece perdono. I rubinetti del credito sono ormai per tutti sempre più chiusi. Aumentano anche gli inattivi, quelli che il lavoro non lo cercano addirittura più e quindi non compaiono neanche nelle statistiche già di per sè preoccupanti che riguardano la disoccupazione. Il peso insostenibile della burocrazia e delle tasse deprimono poi, definitivamente, qualsiasi volontà residua anche solo di provarci.
In tutto questo non migliora il clima di fiducia nei confronti della nostra politica. Non si respira infatti la consapevolezza che questa saprà davvero risolvere la situazione, invertendo la tendenza in atto con provvedimenti forti, coraggiosi e, se necessario, anche impopolari. Le misure "shock" che qualcuno ha di recente invocato restano ancora oltre la linea dell'orizzonte. Le difficoltà sono comprensibili, sono sicuramente tante, tuttavia non possono certo bastare a cambiare questa percezione gli annunci sui rinvii dei previsti incrementi d'imposte (Tares, Imu e, molto probabilmente, Iva) o le pur utili norme del recente decreto cosiddetto "del fare".
Eppure siamo di fronte ad una grande novità e, al  tempo stesso, un'altrettanto grande opportunità. Mai vista prima, nella tormentata storia di questo nostro Paese. Mi riferisco a quello che viene comunemente definito il governo delle "larghe intese". La definizione è però, a ben vedere, inappropriata. Perlomeno al momento, non si vedono infatti quelle "intese" condivise che dovrebbero essere alla base di questo nuovo esperimento ma, soprattutto, non sembrano affatto "larghe", se con questa definizione si vuole fare riferimento a grandi temi. Questa esperienza appare essere vissuta più come l'estrema mediazione rispetto ad una situazione che non lasciava altre alternative. Sembra, detto in altri termini, più un modo per controllarsi a vicenda per impedire all'altro di fare qualcosa di sgradito, piuttosto che l'opportunità di fare finalmente assieme quello che si è sempre rivelato impossibile fare da soli.
Ma se così fosse sarebbe un errore davvero imperdonabile, significherebbe perdere l'ultimo treno e condannarsi irreversibilmente al declino. Nessun Paese può davvero cambiare se il suo progetto riformatore non ha radici nella profonda convinzione e partecipazione di tutte le parti più importanti della politica e della società.
Il momento è proprio quello giusto. Diciamo infatti con chiarezza che, nella percezione soprattutto dei più giovani, la vecchia destra e la vecchia sinistra - quelle, per intenderci, del capitale opposto al lavoro - possono sopravvivere al giorno d'oggi soltanto se si isolano. Soltanto se continuano ad autodefinirsi unicamente in ragione del proprio avversario. Soltanto se si chiudono e si proteggono, condannandosi a dialogare solo con il contesto sociale in cui coltivano il loro presunto consenso. Questa condizione è però del tutto irrealistica. Soprattutto per la soluzione dei problemi che abbiamo di fronte.
Oggi è necessario abbandonare le posizioni preconcette di contrapposizione. Occorre sintetizzare tutti i diversi contributi per incanalarli verso soluzioni condivisibili per tutti e sostenibili dal punto di vista della loro capacità di raggiungere gli obiettivi. Per costruire finalmente qualcosa di comune. Non solo nonostante le differenze ma, una volta tanto, proprio grazie ad esse. La stessa diversità deve e può diventare un fattore competitivo e non più un freno allo sviluppo.
Il sistema che dobbiamo ancora superare è il perverso equilibrio degli squilibri che sta alla base di quella che è stata definita la "democrazia del deficit". Da un lato, la creazione di un esercito di sussidiati della spesa pubblica, con la trasformazione del posto di lavoro pubblico in una virtuale proprietà del lavoratore stesso e l'utilizzo a dir poco improprio di strumenti quali le pensioni di invalidità; dall'altro, la tolleranza verso il fenomeno dell'evasione fiscale che, logicamente, produce doppie penalizzazioni per chi non può o, encomiabilmente, non vuole adottarne il comportamento.
Una sorta di patto implicito, che la politica - tutta la politica - ha per troppi anni assecondato. Un patto tra lavoratori dipendenti e pensionati del pubblico impiego da una parte e lavoratori autonomi ed imprese dall'altra. Un patto fatto sulla testa degli onesti di entrambe le parti e, naturalmente, su quella dei figli di tutti perché finanziato con il debito. La democrazia del deficit, appunto. Quella che non possiamo più permetterci di non affrontare radicalmente. E non perché lo dice l'Europa, la Merkel o la carta costituzionale rinnovata con la previsione del pareggio di bilancio. Semplicemente perché non ce lo possiamo permettere più, punto e basta. Pena il default.
Può riuscirci da sola in questa impresa una destra che mai si è dimostrata particolarmente severa nel contrastare il fenomeno dell'evasione fiscale? Può riuscirci invece una sinistra da sempre particolarmente indulgente nel proteggere uno stato sociale anche quando non è più sostenibile ed è rivolto solo ai soggetti già garantiti?
La risposta è nei fatti ed è negativa.
Non possiamo rassegnarci ad essere la società dei padri del posto fisso e dei figli del lavoro precario. Una società in cui i nuovi ospizi sono le famiglie e in cui i giovani, sempre più vecchi, rimangono intrappolati per l'impossibilità di costruirsi un futuro proprio.
Prigionieri e, al tempo stesso, privilegiati. Protetti il più a lungo possibile in attesa di quella vita da precari cui sono destinati. Non possiamo davvero rassegnarci.
Ecco perché questa esperienza di governo non può e non deve essere sprecata.
Ecco perché la possibilità di costruire assieme il percorso riformatore, anziché limitarsi a contrastare le scelte degli altri, diventa oggi un'occasione davvero irripetibile.

26/06/2013 Messaggero Veneto