Una fase costituente è necessaria

Si apre dunque la cosiddetta fase 2. Quella che, auspicabilmente, dovrebbe condurre gradualmente alla riapertura del Paese con la completa ripresa delle attività economiche e sociali. In un certo senso la scelta della fase 1 è stata persino facile. Di fronte al pericolo del contagio irrefrenabile non c’era altra possibilità che chiudere tutto (o quasi tutto) e restare a casa. Il difficile viene ora. Riguarda il come garantire che l’emergenza sanitaria continui a rientrare senza che insorga un’emergenza economica altrettanto grave in grado di distruggere il lavoro ed il reddito di quelle vite che il morbo avrà risparmiato. E, soprattutto, riguarda il come far sì che questa crisi di dimensioni certamente epocali non sia semplicemente superata per tornare in qualche modo a quelli che eravamo prima, ma per farne un’opportunità di cambiamento reale e di significativo progresso. Già, il cambiamento. Non credo ci sia parola più abusata nei programmi di qualsiasi schieramento politico e poi meno praticata sul campo quando, una volta acquisito il consenso, ci si trova di fronte alla necessità di attuarlo veramente. E di cambiamento questo Paese avrebbe davvero tanto bisogno.

Siamo infatti una società vecchia e stanca, incanalata su un percorso di declino lento e costante che dura ormai da almeno trent’anni. Un declino che riguarda la politica, l’economia, il tessuto sociale e la stessa cultura di questa nostra Italia. I diritti vengono sempre prima dei doveri, la mediocrità scavalca il merito, la lentezza e la conservazione prevalgono sulla rapidità ed il cambiamento. La burocrazia annega la voglia di intraprendere. La cultura del rischio è sempre più marginalizzata rispetto ad un ipergarantismo dominante nel nome di diritti acquisiti che restano egoismo generazionale se non possono essere più riprodotti a favore delle nuove generazioni. Ma diciamoci anche, con chiarezza, che se non cambiamo è principalmente perché in fin dei conti non vogliamo cambiare. Non lo vuole il settore pubblico e tutto l’indotto produttivo privato che lo supporta. Non lo vuole chi si arrangia ed elude la concorrenza violando le regole, a partire da quelle fiscali. Resta certamente, ma alla fine risulta sempre minoritario, chi accetta la sfida del mercato ed è spesso capace di vincerla nel pieno rispetto delle leggi. Ma per gran parte di questi il successo resta una gratificazione personale che non induce a farlo diventare un metodo ed un principio valido per l’intera collettività. E così anche chi eccelle per proprio merito finisce per prestarsi ad essere un innocuo esempio della sin troppo celebrata creatività italiana, paradossalmente evocata principalmente da chi non ha fatto altro che creare regole che hanno finito per soffocarne le capacità di espressione e limitarne l’emulazione.

Per fermare il declino avremmo invece bisogno e assoluta urgenza di semplificare leggi e procedure, di una politica industriale che assecondi la crescita dimensionale ed il salto tecnologico delle nostre imprese, di un grande piano di sviluppo che induca la nostra ingente ricchezza privata ad investire nell’ammodernamento e nella sicurezza delle infrastrutture nazionali, di una politica fiscale premiale per il lavoro dei nostri giovani. E probabilmente di ripensare anche l’architettura istituzionale di questa nostra Italia.

In sintesi, io credo sia arrivato il momento di pensare ad un’Assemblea Costituente. Come in tutti i momenti in cui deve essere ricostruito un Paese all’indomani di un evento eccezionale che ne ha minato le fondamenta. Con il contributo delle migliori menti che abbiamo a disposizione. Per ritrovare, in un clima di consapevolezza che superi gli schieramenti, una visione ideale e progettuale condivisa. Per definire gli obiettivi da conseguire e le regole che ne consentano l’attuazione.

Se non ora, quando?

Claudio Siciliotti
@csiciliotti
@claudio.siciliotti

07/05/2020 Il Messaggero Veneto