Un altro anno sprecato

Anche quest'anno l'ultimo atto del governo è stato l'approvazione del cosiddetto decreto meglio noto come "milleproroghe". Nulla di nuovo in verità. Da lungo tempo infatti, ogni fine d'anno ci ripropone invariabilmente il medesimo copione. Il varo di una sorta di provvedimento calderone dell'ultimo minuto con cui il governo aggiusta tutte le questioni ritenute più delicate, differendone l'entrata in vigore. Così tutti possono dirsi contenti. Quelli a favore delle norme, perchè le vedono comunque confermate; quelli contrari, perchè ne viene in ogni caso differita l'indesiderata applicazione. Affitti d'oro, web tax, sfratti, altri temi. Ma non è poi così importante giudicare il merito.
Quello che sconcerta è che non solo in questo Paese non si fanno le riforme che servirebbero, ma anche quelle poche (o presunte tali) che si fanno vengono pure puntualmente differite. E non una sola proroga. Addirittura mille. Senza peraltro alcun accenno di autocritica o, più esattamente, di vergogna. Neppure nel ripetere in continuazione l'imbarazzante nome del decreto.
Inutile lamentarsi a questo punto se gli investitori stranieri manifestano più di qualche perplessità nei confronti di un Belpaese che continua a fornire così tante ripetute prove di incapacità decisionale. Forse sarebbe bene interrogarsi più a fondo e chiedersi se sia possibile continuare a propagandare per stabilità quello che in realtà, nel nostro caso, è solo immobilismo.
E così il nostro Paese si appresta a vedere la conclusione di un altro anno senza che quella svolta che tutti gli italiani aspettano da troppo tempo appaia quantomeno all'orizzonte. Un anno che ha visto un'esperienza di governo del tutto nuova rispetto al passato. Quella del governo delle cosiddette "larghe intese". Un'esperienza che, perlomeno nella formula originaria, è durata ben poco. Ma che, soprattutto, non ha comunque prodotto i risultati sperati.
Un anno trascorso a dibattere quasi esclusivamente il tema della tassazione sulla casa. Divenuto terreno di scontro feroce, anche tra gli stessi alleati (ed ex alleati) di governo. Col risultato finale che forse pagheremo nel 2013 qualche euro in meno dell'anno prima ma che, per gli anni a venire, pagheremo di certo tutto quello che pagavamo prima. Anche sulla prima casa. Con l'aggravante di una tale sopravvenuta confusione di sigle, aliquote e scadenze da rendere incomprensibili le modalità di adempimento del tributo anche per il contribuente più scrupoloso e corretto.
Capiamoci bene: con i conti dello Stato che ci ritroviamo, il tema fiscale è senz'altro oggi decisivo. Ma non è certo l'imposta sulla casa quella che, in termini di gettito complessivo, può dare il contributo più determinante.
La principale imposta di questo Paese è infatti l'Irpef. Quella che pagano tutti coloro che producono un reddito. Quella che, come recita la nostra carta costituzionale, deve essere improntata a criteri di progressività. Un'imposta la cui aliquota aumenta all'aumentare dell'imponibile. Un'imposta che pertanto chiede a chi ha redditi più elevati di pagare più che proporzionalmente rispetto all'aumento dell'imponibile.
Se l'Irpef è quindi, in termini di gettito e di rispetto delle norme costituzionali, la principale imposta del nostro Paese, sarebbe logico attendersi che il dibattito sulle sue aliquote debba essere quello centrale quando si parla di fisco e di pressione tributaria.
E invece non è così.
Le aliquote Irpef sono infatti sempre le stesse, immodificate da ben sette anni. Esattamente dal 1 gennaio 2007. Da allora ci è passata sopra la più grande crisi economica dell'era contemporanea. Sette anni in cui si è discusso praticamente ogni giorno di tasse ma, ciò non di meno, a nessuno è mai venuto in mente di parlare seriamente di aliquote Irpef. A pensarci, davvero strano. Sarà forse che modificando in più o in meno le aliquote si sarebbe fatto capire ai cittadini che si aumentavano o si diminuivano effettivamente le tasse, senza più possibilità di equivoco? Sarà forse che è molto più comodo intervenire costantemente sugli imponibili, così nessuno capisce più niente ed è più facile raccontare, secondo convenienza, la propria verità di parte? Ripetendo invariabilmente, se si governa, che le tasse sono state tagliate, per poi cambiare immediatamente opinione quando si passa all'opposizione? Non è forse questo il desolante balletto a cui abbiamo assistito negli ultimi anni e con cui gli uni e gli altri ci hanno portato nelle condizioni in cui oggi si trova l'Italia?
Un Paese nel quale la pressione fiscale è sempre più elevata, la disoccupazione soprattutto giovanile è in costante crescita, la propensione al risparmio è ormai ridotta al lumicino, la ricchezza è sempre più concentrata nelle mani di pochi, il credito è irraggiungibile e sempre più oneroso, i consumi sono sempre più asfittici, il mercato della casa è completamente crollato. Un Paese in cui ormai una famiglia su tre è a rischio di povertà.
È troppo chiedere allora a chi ci governa o aspira a farlo come e quanto, numeri doverosamente alla mano, pensa di tagliare finalmente la spesa per poi destinarne il ricavato, senza se e senza ma, alla corrispondente riduzione dell'imposizione fiscale? Possiamo considerare soddisfacente la previsione della recente legge di stabilità che limita tale previsione "al netto delle risorse da destinare a programmi finalizzati al conseguimento di esigenze prioritarie di equità sociale e di impegni inderogabili"? Non è che ci prendiamo in giro ancora una volta?
La riduzione della spesa per finanziare la parallela riduzione della pressione fiscale è oggi la principale esigenza di "equità sociale". Assieme, beninteso, al contrasto all'evasione fiscale. Un contrasto che però potrà giovarsi di un consenso sempre più diffuso e quindi risultare più efficace proprio quando le aliquote saranno più proporzionate per effetto dei risparmi realizzati sul fronte della riduzione spesa pubblica.
Non c'è davvero più tempo da perdere. "Il tempo è uno strumento, non un divano" amava dire Il Presidente Kennedy di cui abbiamo appena celebrato il cinquantenario dalla morte.
Facciamo nostro il crudo realismo di questa espressione.
A meno di pensare che, per il tramite di un ennesimo decreto di fine anno, si possa stabilire che il prossimo 2014 in realtà altro non è che il ...2013/bis.

30/12/2013 Messaggero Veneto