Ticket sanitari in base al reddito: ma è davvero giusto?

In un panorama ancora abbastanza confuso in cui le principali misure della manovra 2020 vengono prima annunciate, poi smentite ed il giorno dopo riproposte, emerge tuttavia una tendenza che pare ormai condivisa. Quella di rivedere il tema dei ticket sanitari ed, in generale, le modalità di compartecipazione dei cittadini alla spesa pubblica necessaria per garantire la loro salute.

Il ministro Speranza, infatti, ha detto che oggi non conta se sei miliardario o in difficoltà economica perché, in entrambi i casi, al di là delle esenzioni, si paga lo stesso importo per accedere alle cure garantite dal nostro sistema sanitario nazionale. Invece, sempre secondo il ministro, dovrebbe essere riaffermato il principio che chi ha di più deve pagare di più e chi ha di meno deve pagare di meno.

Secondo le intenzioni del ministro e del governo, quindi, il costo della prestazione medica dovrà essere stabilito in base al livello reddituale del paziente, in modo che chi dichiara di più paghi di più in proporzione.

A supporto di questa tesi viene citato il noto principio costituzionale (art. 53) secondo il quale il nostro sistema tributario deve essere informato a criteri di progressività.

A prima vista potrebbe apparire incontrovertibile che il principio costituzionale vada applicato anche al caso di specie. Anzi, verrebbe da dire, se la violazione di tale principio con riferimento alla spesa sanitaria è stato fino ai giorni nostri tanto palese, come mai nessuno se ne è accorto prima?

La mia opinione è che nessuno se ne è accorto prima perché non c’era nulla di anormale di cui doversi accorgere e fare oggi una scelta diversa, quale quella proposta, sarebbe invece davvero sbagliato ed infine pure ingiusto.

Il nostro sistema è già improntato a criteri di progressività sicuramente significativi. Chi guadagna oltre 75 mila euro versa allo Stato quasi la metà del suo reddito (esattamente il 43%), ben 20 punti in più di chi guadagna fino a 15 mila euro (23%), senza contare che pensionati e dipendenti beneficiano inoltre di una “no tax area” fino a circa 8 mila euro.

Questo per dire che il “ricco” (se vogliamo definire tale chi guadagna oltre 75 mila euro) il suo conto con la progressività imposto dalla Costituzione lo paga già con l’Irpef. Se si ritiene che il divario col “povero” sia ancora troppo esiguo, allora si abbia il coraggio di alzare l’asticella dell’aliquota Irpef senza introdurre surrettizie compensazioni che servono solo a ingenerare inutile confusione.

Altro sarebbe stato se fosse stata introdotta una (vera) flat tax. A quel punto la progressività avrebbe dovuto sì essere assicurata proprio dal divario di costo per i cittadini in base al loro reddito per accedere ai servizi pubblici.

Ma se l’imposta principale è e resta già (fortemente) progressiva, allora alzare il gettito dei ticket sanitari (perché di questo si tratterebbe) diventa solo un espediente per fare cassa invocando a sproposito principi costituzionali il cui rispetto deve essere garantito altrove.

Del resto una prestazione sanitaria costa allo Stato lo stesso importo, sia che a beneficiarne sia un cittadino abbiente ovvero uno bisognoso.

Ricordiamoci cosa diceva un grande uomo di sinistra, Olof Palme, che ha pagato con la vita il suo impegno politico, secondo il quale i progressisti devono combattere la povertà e non la ricchezza.

Il bersaglio di una società civile, infatti, non devono essere i ricchi, ma i falsi poveri. Quelli che dissimulano le loro reali condizioni economiche e con ciò si sottraggono al dovere costituzionale di concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro reale capacità contributiva.

Questi, e non altri, vanno perseguiti.

Claudio Siciliotti
@csiciliotti
@claudio.siciliotti

08/10/2019 Il Messaggero Veneto