Spesa pubblica, nodo mai risolto

La Germania ha registrato, nel primo semestre 2016, un avanzo di bilancio di circa 18.5 miliardi pari all'1.2 % del Pil.
Il dato conferma il trend positivo dei conti pubblici tedeschi dal 2014 in poi (il 2013 è stato infatti l'ultimo bilancio statale chiuso in deficit, peraltro solo dello 0.1%). In precedenza, era dal 1969 che i conti tedeschi non si chiudevano in attivo, ricordando tra l'altro che nel recente 2010 la Germania aveva persino abbondantemente sforato il limite europeo del 3% del deficit pubblico sul Pil (-4.2%).
Successivamente, grazie ad una crescita superiore alla media europea, ad una disoccupazione ai minimi dalla riunificazione delle due Germanie e, soprattutto, ai bassi tassi di interesse, i tedeschi hanno conseguito e poi stabilizzato questo risultato da ritenersi sicuramente rilevante. Da quest'ultimo punto di vista, ricordiamo che i rendimenti dei Bund decennali, proprio da giugno di quest'anno, sono scesi per la prima volta nella storia del paese in territorio negativo. In altre parole, la Germania in tal modo può indebitarsi a lungo termine addirittura guadagnandoci. In una situazione del genere il ministro delle finanze, il cosiddetto "falco" Schäuble, può lanciarsi oggi a promettere tagli di imposte per i contribuenti tedeschi di circa 15 miliardi di euro, mentre gli industriali vorrebbero tagli addirittura per 30 miliardi di euro. In una Germania in cui, peraltro, ancor prima di questo annunciato intervento, la pressione fiscale è stabile da oltre dieci anni. Sempre al disotto del 40% (attualmente 39.3%).
E noi? In Italia la pressione fiscale è al 43.5% (dato 2015) ed anche volendo ricomprendere l'effetto dei famosi "80 euro" (conteggiati invece, secondo corrette regole contabili, come maggiore spesa dello Stato) il dato scenderebbe al 42.9%.
In ogni caso le regole citate - è bene dirlo - non sono una bizzarria contabile ma rappresentano fedelmente quello che è un beneficio destinato ad una specifica categoria di persone (e quindi un costo per lo Stato) e non una riduzione generalizzata delle imposte che spetta a tutti i contribuenti (che, viceversa, sarebbe stata computata a riduzione della pressione fiscale).
Il nostro rapporto deficit/Pil (deficit/Pil e non non surplus/Pil come invece la Germania) si dovrebbe attestare nell'anno in corso sul 2.4% e la nostra crescita ben difficilmente raggiungerà l'1% (stima Confindustria +0.7%), molto al disotto della media UE 2015 (+1.7%).
Quale spazio allora, in un quadro assai diverso da quello tedesco, per ipotizzare le rilevanti riduzioni delle imposte che vengono in questi giorni promesse? Davvero poco si dovrebbe concludere.
Esattamente il contrario di quanto ci sarebbe viceversa bisogno per dare un impulso ad una crescita economica ancora largamente al disotto delle attese. Eppure anche noi abbiamo beneficiato della riduzione dei tassi di interesse.
Grazie soprattutto al cosiddetto Quantitative Easing, fortemente voluto da Mario Draghi, gli interessi passivi sul debito pubblico sono passati dagli 85 miliardi del 2012 ai 68 del 2015.
Tuttavia il debito pubblico italiano non è affatto sceso. Anzi. Conseguenza di bilanci comunque sempre in rosso e solo marginalmente migliori rispetto al recente passato.
Il deficit è infatti passato dai 47 miliardi del 2012 ai 42 del 2015.
E la spending review? Il commissario Yoram Gutgeld dice che la revisione della spesa varrà ben 25 miliardi di euro nel 2016.
Peccato che il suo predecessore Roberto Perotti replichi che, a fronte dei capitoli di spesa effettivamente ridotti, ce ne siano altri che sono aumentati in misura pressoché equivalente.
Quindi, più che ridotta, la spesa è stata al più riqualificata.
In questi anni - è vero, è giusto darne atto - diverse misure di sgravio fiscale a sostegno della produzione sono state varate dal governo Renzi (gli 80 euro, la deducibilità del costo del lavoro dall'Irap, gli sgravi contributivi per i contratti a tempo indeterminato, le misure più importanti).
Ma altre voci di entrata sono state al contempo inasprite (la tassazione delle rendite finanziarie, le misure di recupero dell'Iva come il "reverse charge" o lo "split payment", la revisione delle detrazioni d'imposta, per citare anche qui le più importanti). Senza dimenticare che se diminuiscono il canone Rai e le tariffe dei servizi a base nazionale, sono invece in continuo aumento, in misura più che proporzionale, le tariffe dei servizi locali (raccolta rifiuti, asili nido, trasporti regionali ..).
Più o meno lo stesso andamento del fisco: tagli a livello nazionale ed aumenti locali. L'effetto è che il risultato complessivo non cambia o cambia di poco.
In altre parole, senza una decisa riduzione della spesa pubblica (non solo una sua riqualificazione), quel sostanziale sgravio dei costi della famiglia italiana per sostenere la macchina pubblica è destinato a restare solo una chimera.
È proprio la spesa pubblica il nodo che resta irrisolto.
Se c'è ancora qualcuno in questo paese che la riduzione della spesa la vuole davvero, allora batta un colpo.
Questo è il momento.
Margaret Thatcher diceva che non esistono soldi pubblici, esistono solo soldi dei contribuenti. Portati a casa con sempre maggiore fatica, bisogna aggiungere oggi.
Ce ne dovremmo ricordare tutti più spesso.

Claudio Siciliotti
@csiciliotti

08/10/2016 Il Messaggero Veneto