Italianità e mercato globale: due realtà inconciliabili

Le vicende sicuramente diverse, ma parallele, che riguardano Telecom e Alitalia sono, al tempo stesso, la conferma dell'inadeguatezza di un'intera classe dirigente pubblica e la fotografia delle difficoltà di fare oggi impresa, a livello competitivo, nel nostro paese.
Non solo infatti Telecom diventa "spagnola" e Alitalia sta probabilmente per diventare "francese" ma, negli ultimi tempi, anche diverse realtà imprenditoriali private sono state rilevate da investitori stranieri (Bulgari, Loro Piana, Ducati tanto per fare degli esempi). Senza che, al contempo, avvenisse significativamente il fenomeno contrario. Stiamo quindi assistendo ad un processo di progressiva deindustrializzazione della nostra economia che costituisce un altro capitolo del preoccupante declino italiano.
Sotto il vessillo della cosiddetta "italianità", la nostra politica ha dimostrato negli anni una costante repulsione per le logiche di mercato per costruire un consenso che, in realtà, nulla aveva a che fare con quell'interesse nazionale che pure veniva costantemente agitato. In un'economia che non ci si stanca mai di definire "globale", di fatto si è preferito sottrarsi al mercato piuttosto che confrontarsi con questo.
Non altrimenti può spiegarsi come ci si sia potuti rifiutare di vendere cinque anni fa Alitalia ad Air France/Klm per oltre 3 miliardi (poi addossati in tasse ai contribuenti italiani) se oggi, sull'orlo di un fallimento annunciato, ci si accontenta di cederla agli stessi acquirenti per non più di 100/150 milioni (alla fin fine i francesi, ci si può scommettere, anche dopo l'intervento di Poste, non ne tireranno fuori di più). Lo stesso dicasi per Telecom, in cui la spagnola Telefonica aumenterà progressivamente il capitale della controllante Telco, diluendo così i soci italiani, fino a potenzialmente eliminarli completamente. Il tutto per poco più di 300 milioni necessari per acquisire la maggioranza.
Davvero spiccioli, se si confrontano con le ben più rilevanti esigenze attuali del bilancio del nostro Stato di cui si è tanto discusso in questi tempi  (Imu, Iva, Cassa Integrazione, missioni militari, rientro del deficit al disotto del 3%).
Di tutto quanto accaduto non può dirsi esente da colpe neanche un certo tipo di sindacato che ha spesso visto nella difesa del posto di lavoro l'unico suo obiettivo, senza curarsi anche della difesa dell'azienda che quel lavoro era in grado di offrire. Col risultato, sovente, di non aiutare a salvare quei posti di lavoro e, per di più, di aggravare le condizioni dell'azienda che era in grado di offrirli.
Bisogna dire allora con chiarezza che i consumatori italiani non sono affatto interessati alla nazionalità degli azionisti delle società che offrono loro i servizi. Cosa importa infatti a quanti devono volare o telefonare se il vettore o il gestore del servizio richiesto sia francese oppure spagnolo? Ciò che interessa veramente è che offra servizi buoni a prezzi contenuti, in un mercato che permetta a tutti di confrontarsi senza posizioni monopolistiche che - la storia ci insegna -  finirebbero solo per alzare i prezzi e peggiorare la qualità dei servizi. Tanto più quando il prezzo di questa "italianità" finisce per tradursi, di fatto, in maggiori tasse da dover pagare.
Lo Stato non deve gestire attività economiche e, ancor peggio, nominarne i manager, spesso con discutibili criteri di meritocrazia. Lo Stato deve creare le regole e controllare che queste siano osservate da tutti gli operatori. In primo luogo, perché così sottrae ingiustificatamente spazi all'economia privata. In secondo luogo, perché finisce per indebolire gli stessi controlli che spettano alla sua competenza sulla correttezza e la trasparenza delle gestioni. Ciò in quanto chi controlla e chi gestisce non sono due soggetti realmente terzi, ma due soggetti sostanzialmente riconducibili a una medesima filiera di influenze. È arrivato allora il momento di sciogliere l'intreccio perverso tra Stato e politica da una parte e imprese dall'altro. Anche perché di uomini come Enrico Mattei, lungimiranti e capaci capitalisti di Stato, in grado di fare sia il bene dell'azienda che quello del Paese intero, proprio non se ne vedono all'orizzonte. Lasciamo perdere allora i "capitani coraggiosi" che sono solo l'espressione di un capitalismo viziato. Lo Stato e i partiti si facciano da parte dove è necessario competere in regime di libera concorrenza. E, alla fine, se non ci sono alternative credibili, ben vengano pure gli stranieri a guidare i nostri voli e le nostre conversazioni telefoniche.
D'altro canto va anche detto che un atteggiamento diverso mal si concilierebbe col recente viaggio oltreoceano del premier Letta. Come si attirerebbero credibilmente gli investimenti stranieri nel nostro Paese se si pretendesse di impedire agli investitori di sceglierne liberamente la destinazione?
Un esempio su cui riflettere merita a questo punto di essere fatto. Quello della britannica Easyjet che è la terza compagnia aerea per numero di soggetti trasportati in Italia. Una compagnia che chiude i bilanci in utile e che continua ad assumere costantemente piloti e assistenti di volo, anche italiani. Una compagnia che si attesta su livelli qualitativi che vengono riconosciuti come nettamente superiori rispetto alla nostra Alitalia (41mo posto dell'apposita classifica Skytrax, mentre Alitalia è al 83mo posto).  Evidentemente gli italiani non si fanno troppe domande sulla mancanza di "italianità" di questa compagnia. Semplicemente salgono sui suoi aerei se ricevono servizi coerenti con i prezzi che vengono loro richiesti. Se allora anche Alitalia avesse saputo rispondere nello stesso modo alle esigenze della clientela, probabilmente avrebbe anch'essa prodotto utili invece di realizzare, come viceversa ha fatto, abissali perdite e voragini di debiti. Con le conseguenti immancabili maggiori tasse per i contribuenti italiani. Questo avrebbe permesso alla nostra (ancora per poco) compagnia di bandiera di poter assumere soprattutto i nostri giovani invece di far loro vivere, come a tutti gli altri dipendenti Alitalia, l'incubo di una perdita del posto di lavoro di cui, perlomeno loro, certamente non sono causa.

18/10/2013 Messaggero Veneto