Debiti dello Stato verso le imprese: un paradosso italiano ancora irrisolto

Il decreto approvato sabato dal consiglio dei ministri per i pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione alle imprese inizia, pur con colpevole e del tutto ingiustificato ritardo, a porre rimedio ad un paradosso tutto italiano.
Non si può infatti chiedere al cittadino di rispettare le regole poste dal proprio Stato se quest'ultimo è il primo a non rispettarle nei suoi confronti.
Nel caso in questione si sono chiusi gli occhi di fronte ad una clamorosa inadempienza che dura da decenni e che ha portato lo Stato italiano ad accumulare circa 100 miliardi (ma chi lo sa con certezza?) di mancati pagamenti a favore delle imprese fornitrici determinandone, in concreto, situazioni di fallimenti e crisi, di riduzione dell'occupazione ed in taluni casi anche di autentica disperazione umana.
Il primo dato scandaloso è proprio la perdurante incertezza sulle dimensioni esatte del fenomeno.
Sono 70, 90, 100 o più di 100 i debiti scaduti? Nessuno lo sa, a partire dallo Stato.
"Non ne abbiamo certezza" ammette candidamente il ministro Grilli ed infatti il decreto approvato si propone, tra l'altro, di dar corso ad una ricognizione completa dei debiti scaduti entro il prossimo 15 settembre. Chissà perchè nessuno ci ha mai pensato prima.
Ma che credibilità, interna ed internazionale, può avere uno Stato che non solo non onora i suoi debiti ma neppure riesce a stabilirne con esattezza l'ammontare? Oppure non si è voluto farlo semplicemente perchè così ci sarebbe stata una cifra esatta e riconosciuta da sommare al debito pubblico che, anche senza ulteriori aggiunte, veleggia già oggi abbondantemente sopra la cifra record dei 2.000 miliardi, pericolosamente vicino al 130% del PIL?
Da uno studio dell'istituto I-Com per il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti del maggio scorso risulta che il fenomeno in questione determina un maggior costo complessivo per il nostro sistema delle imprese di circa 3 miliardi (!) l'anno. Il dato deriva dalla somma di 2,35 miliardi di costi diretti derivanti dalle necessità di ricorrere al finanziamento per sopperire alle esigenze di liquidità e da altri 656 milioni di costi dinamici per l'effetto indotto dei fallimenti e della correlata distruzione di risorse per tutti i portatori di interesse, in particolare i soci e i creditori delle aziende coinvolte.
3 miliardi - lo si ripete - circa 2 punti di PIL.
In pratica le imprese che lavorano con la pubblica amministrazione non solo sono costrette a pagare a questa le imposte, ma neppure dalla stessa ne ricevono i ricavi sui quali quelle imposte sono calcolate ed anticipate.

La strada che qualsiasi Paese serio a questo punto intraprenderebbe sarebbe quantomeno quella della totale compensazione dei debiti tributari con i crediti certificati nei confronti della pubblica amministrazione.
Per l'Italia però non è così. Per noi l'ovvio si limita a riconoscere solo la compensabilità dei debiti tributari iscritti a ruolo a cui da ultimo sono state aggiunte le somme "dovute in base agli istituti definitori della pretesa tributaria e deflativi del contenzioso". In pratica, le somme derivanti dall'accettazione degli esiti della definizione dell'eventuale contestazione del Fisco.
Questa situazione genera diverse storture logiche sulle quali è opportuno riflettere e sulle quali la politica è chiamata ad intervenire.
Primo. Più la pubblica amministrazione non mi paga e più io sono costretto ad indebitarmi (sempre che trovi chi è disposto a finanziarmi) ed a pagare interessi passivi. Ma gli interessi passivi non sono neppure del tutto deducibili dal reddito di impresa e quindi pago ancora più tasse. Quindi pago più tasse non per colpa mia ma per colpa di quello Stato che queste maggiori imposte ingiustificatamente pretende.
Secondo. Se si compensano solo gli importi iscritti a ruolo e quelli definiti in contrasto con il Fisco, si finisce per penalizzare chi paga le tasse regolarmente e si agevola invece chi non adempie nei termini. Inoltre si forza il contribuente a sottostare alle richieste del Fisco anche quando, altrimenti, farebbe la scelta di resistervi.
Terzo. Chi è costretto a ricorrere al credito bancario, lo si è già detto, deve assoggettarsi a interessi e commissioni. In conclusione - caso davvero unico - gli oneri finanziari finisce per pagarli il creditore (cioè le imprese) e non il debitore (cioè lo Stato)!
Ma si può andare avanti così? Può dirsi sufficiente quello che sinora è stato fatto?
Pur apprezzando gli sforzi, la risposta oggettivamente non può che essere no.
Un ultimo aspetto. Spesso la pubblica amministrazione non paga non perchè non abbia le risorse ma perchè deve rispettare il cosiddetto "patto di stabilità" ed i suoi vincoli sulla creazione di maggior debito. Anche questo è un paradosso che merita di essere spiegato. La pubblica amministrazione si basa sulla contabilità finanziaria, le imprese sulla contabilità economica. La prima registra così entrate ed uscite effettive, le seconde ricavi e costi maturati (ancorché non effettivamente incassati ovvero pagati). Quindi per la pubblica amministrazione vale un principio che non vale per nessun altro: se paga (e quindi di fatto estingue il debito) aumenta il debito, se non paga (e quindi il debito resta) viceversa no. E quindi, a maggior ragione, non paga!
Si è spesso criticato il peso eccessivo, nella crisi, della finanza sull'economia e poi è proprio lo Stato a far pesare la finanza sul sistema delle imprese.
Con un parallelismo un pò ardito tra Stato e Paese, si potrebbe dire che gli sprechi stanno all'evasione come il mancato pagamento dei debiti sta all'elusione.
Chi elude viene sanzionato. E allora perchè non succede altrettanto nei confronti di chi non paga?
La compensazione tra crediti nei confronti della pubblica amministrazione e debiti tributari non esiste in altri stati europei. Perché sono addirittura più indietro di noi? No, semplicemente perchè altrove la pubblica amministrazione rispetta le scadenze.
E' proprio difficile stare nell'Europa dei doveri se non si è anche nell'Europa dei diritti.

09/04/2013 Messaggero Veneto